Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea, imprese campane con il fiato sospeso

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Il 24 giugno gli elettori della Gran Bretagna scelgono, con il 52 per cento delle preferenze al Leave, di uscire dall’Unione Europea. Una volta appresi i risultati tutto il mondo si interroga sugli effetti della Brexit e in Campania le aziende che hanno rapporti di affari con lo United Kingdom provano a capire cosa cambia in concreto. Paolo Scudieri, numero uno di Adler Group, dalla Germania dove si trova per lavoro affida a ildenaro.it la sua analisi. “Il nostro gruppo – dice – con 62 stabilimenti in 22 Paesi è certamente interessato agli effetti della Brexit come ogni azienda globale. Adler ha interessi diretti in Gran Bretagna. Abbiamo a Speke uno stabilimento che produce per grandi marchi, tutti premium e inglesi, e un centro per lo sviluppo di nuove tecnologie per il confort acustico vicino Plymouth. Ritengo dunque che per la mia azienda l’uscita dall’Unione Europea non avrà effetti diretti ed immediati. Più complesso è il quadro generale. L’esito della consultazione avrà senza dubbio ripercussioni certe anche per l’Italia e per le imprese che vedono nel Regno Unito un mercato di sbocco. Va ricordato – prosegue Scudieri – che l’export delI’Italia verso il Regno Unito supera di 12 miliardi l’import, grazie soprattutto a moda, cibo e meccanica, e il venir meno della libera circolazione intra-europea si farà certamente  sentire. Mi sembra si possa parlare di un passo indietro rispetto al processo di creazione di un’Europa forte e coesa in una economia globale. Chi sottolinea le riduzioni di costi dovute all’uscita della Gran Bretagna – conclude l’imprenditore campano – sottovaluta il problema nella sua portata complessiva, dando eccessivo peso ad un dettaglio che non segnerà certamente la storia”.  
 
Una presenza consistente nell’Uk anche per Grimaldi Group, che possiede un ufficio a Londra con 100 dipendenti e una società controllata a Liverpool. L’azienda dell’armatore Manuel Grimaldi trasporta, dal Regno Unito, veicoli verso il Nord America e merci verso l’Inghilterra sia dal Mediterraneo che dall’Africa perché il mercato britannico importa molte materie prime agricole. Sugli effetti della Brexit nessuno si sbilancia e con IlDenaro.it l’area comunicazione sottolinea solo che “quello inglese è un mercato molto importante per la compagnia”. Discorso simile per il gruppo Getra di Marco Zigon, che dal Regno Unito riceve il 20 per cento (100 milioni di euro circa) del suo fatturato complessivo. Zigon, all’estero per lavoro, rimanda qualsiasi commento. Sulla stessa lunghezza d’onda Roberto Scaramella, amministratore delegato del gruppo Ala, che preferisce attendere gli sviluppi della vicenda prima di esprimersi. Di sicuro quanto sta accadendo non intralcia in alcun modo l’operazione di acquisizione della Stag, una delle principali aziende inglesi del settore aeronautico. 
 
È negativo il giudizio di Antonio D’Amato, capo della Sada Packaging e da anni presente con un proprio ufficio in Inghilterra. “La Brexit pone un insieme di problemi strategici – è il concetto già espresso qualche settimana fa nel corso di un incontro all’Ambasciata italiana a Londra – e già prima del referendum molte imprese hanno sospeso gli investimenti in attesa di capire cosa accadesse”. Non si sbilanciano, invece, le aziende di moda E. Marinella e Rubinacci che comunque non sentono minacciato il loro business. Un effetto del referendum è la sospensione della pubblicazione delle previsioni di Confindustria su Pil e conti pubblici per il 2016/2018 perché non consideravano l’uscita dell’Uk dall’Unione Europea. “Effetti ci saranno – spiega il presidente Enzo Bocciama dobbiamo stare tranquilli perché le fondamenta dell’Europa sono solide e in quest’area c’è il mercato più ricco del mondo unito a un debito pubblico inferiore a quello degli Usa”. Al coro di analisi partecipa anche il sociologo e docente Domenico De Masi. “La decisione del popolo britannico è autolesionista – dice – soprattutto se si considera la frammentazione dell’economia globale. La Brexit è figlia di un cultural gap – spiega De Masi – che fa sentire parte del Paese come ai tempi dell’Impero Britannico”. Il console onorario del Regno Unito a Napoli, Pierfrancesco Valentini, interpellato da IlDenaro.it, spiega che “a noi diplomatici è stato imposto il silenzio stampa sulla vicenda”.