di Giuseppe Tranchese
La morte è presentata oggi con disgustosa abbondanza ed agghiacciante familiarità nei mezzi di comunicazione di massa, rendendola, purtroppo, una turpe ed insana abitudine. Ciò nonostante, citarne la sola parola durante una discussione risulta, paradossalmente, ancora un tabù, un qualcosa di cui non è decente parlare. Se ci si trova dinanzi ad immagini di morti per fame, sete, guerre, maltrattamenti umani ed animali, tutti enfatizzano, con un certo distacco, un senso di indignazione iniziale (che, spesso, non corrisponde nel tempo ad un concreto lavoro di ricerca delle soluzioni), ma se si intavola una discussione diretta sull’evento morte, sul suo senso, su ciò che determina e che potrebbe succedere ad ogni individuo, si leggono sui volti netto disagio e sfuggente paura, cambi di discorsi o gesti scaramantici. Anche su uno dei più grandi dilemmi esistenziali qual è la morte, gli animali, in particolare i cani ed i gatti che vivono a più stretto contatto con l’uomo, possono aiutarci nella comprensione. Del resto la morte lega umani ed altri animali in un unico destino, una condivisione che dovrebbe, finalmente, mettere l’uomo nella posizione di non pensarsi come unico dominatore della terra, vista la certezza storico-evolutiva che non vi sia un luogo del pianeta dove gli animali non siano stati presenti già prima di noi. Sono state prodotte ricerche sulle reazioni degli animali alla morte del loro amico umano. Il cane, in particolare, sembrerebbe sentire la mancanza dell’uomo nei piccoli particolari, nelle routine quotidiane; è capace di ripeterle in continuazione cercando di trovare il momento nel quale l’amico tornerà, come riportato in tante storie ed esperienze reali che la narrativa, la poesia, la cinematografia hanno descritto con dovizia di particolari e puntualizzando quanto il tempo, per noi tanto determinante, per l’animale non rappresenti un limite. L’animale, offeso dall’assenza dell’umano, ne sente profondamente la mancanza, perché chi ama sa “soffrire” e sa “piangere” le assenze, anche non sfruttando l’intelletto, ma il cuore e la volontà: quando riscontriamo la sofferenza animale, apprezziamo facilmente anche l’amore animale, e viceversa, come se le due cose condividessero le frontiere emozionali. E’altrettanto vero che, in molti casi, l’animale che muore lascia nell’amico umano un vuoto esistenziale, caratterizzato, forse, anche dal fatto che potremmo vedere allontanarsi qualcuno che dipende totalmente da noi. Chi è morto non è solo un animale, un organismo che ha cessato di funzionare, non una cosa ma un “chi”, una soggettività che ha subito una metamorfosi (comunque la si pensi sul dopo morte). Sperimentare la relazione uomo-animale-morte, incrociando lo sguardo di un animale morente, offusca ogni utopia e dovrebbe aiutarci a comprendere quanto sia importante apprezzare la semplicità di gesti d’amore e di condivisione non mossi dalla sola ragione, nonché sottolineare l’urgenza delle azioni. Quali? Quelle di lottare per la liberazione da ogni forma di violenza perpetuata ogni giorno ed in ogni parte del mondo su ogni essere vivente. La strada più praticabile verso un senso vivo di immortalità rimane quella di uscire dai confini ristretti della propria individualità e immergersi nell’interezza e complessità della vita, nella sua unicità pur nella pluralità di espressioni: essa sì, nel suo complesso, è evidentemente eterna!