Università allo sfascio: non ci sono i soldi per le borse di studio

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Altro che agenzia del farmaco, tasse, pil, manovra finanziaria, solite bacchettate dall’Ue eccetera – insomma, i soliti temi rimbalzati in settimana sui media – ma lo stato di salute economica del Belpaese si evince, questa volta, da due argomenti solo apparentemente di secondaria importanza: università e lavoro. La prima, beninteso, nell’accezione più estesa di formazione scolastica (che, com’è noto, fa acqua da tutte le parti); il secondo, strettamente correlato alla prima, inteso come moderna forma di alienazione marxista di cui in Italia è rimasto a parlare, ormai, solo il giovane filosofo Diego Fusaro, neanche più Articolo 1-Movimento Democratico Progressista. Vale a dire, la sinistra ex comunista e scissionista del Pd.
Dell’università, dunque, si sapeva delle lamentazioni dei prof che guadagnano poco e perciò recentemente hanno bloccato gli esami, mentre non si sa affatto degli studenti “che avrebbero diritto alle borse di studio, ma non la ricevono perché non ci sono fondi”, come ha spiegato Bruno Catalanotti, docente di Chimica alla Federico II. Il quale, anzi, a proposito dell’università campana, recentemente toccata – come si ricorderà – da uno scandalo relativo a supposti concorsi truccati – aggiunge: “In Campania è la metà del totale, una situazione disastrosa”.
Del lavoro, invece, dovrebbe far riflettere, eccome, il focus di Linkedin e Adecco Group sui lavoratori (nella stragrande maggioranza giovani compresi tra i 18 e 24 anni) cosiddetti flessibili (flexible worker, si dice). I quali, per intenderci, sono costretti a cambiare azienda in media ogni 14 mesi, alla ricerca – spiega l’indagine – di nuovi stimoli, di benefit, di una retribuzione adeguata e di un buon bilanciamento tra vita privata e professione, che però è sempre più difficile trovare.
La ricerca ha individuato anche i settori in cui sono maggiormente presenti i flexible worker: il settore IT e quello della comunicazione, che vantano la rappresentanza maggiore, seguiti a breve distanza dalla manifattura. La maggior parte dei freelance (un altro termine tecnico da memorizzare) in Italia, nel 55% dei casi, può vantare titoli di studio di alto livello, in particolare business management, computer science, economia oltre ad architettura e design. In diversi casi, peraltro, la flessibilità dei contractor è anche fisica.
La ricerca sui flexible worker ha più di un punto di contatto (ma dovrei dire, forse, un link) con lo sciopero organizzato dai dipendenti di Amazon nello stabilimento di Castel San Giovanni a Piacenza, in concomitanza col Black Friday.
Così come, a proposito del venerdì nero, è appena il caso di ricordare che è anche il peggiore giorno per fare shopping, come hanno ricordato, dai rispettivi punti di vista, Usa Today (quotidiano statunitense terzo per diffusione in America e tra i primi dieci quotidiani di lingua inglese al mondo) e il Wall Street Journal. “Troppe tentazioni, troppa gente, ma soprattutto falsi sconti” scrivono. Come dire: ogni mondo è paese.
Ma veniamo alle notizie economiche della settimana che invece sono state più delle altre sotto i riflettori dei media. A cominciare dalla sconfitta, con sorteggio beffa, di Milano che era candidata ad ospitare l’Agenzia europea per il farmaco, sfrattata da Londra dopo la Brexit. La fortuna, come si sa, ha premiato Amsterdam. Ma parlare di sorte appare forse fuorviante: l’Italia è tra i fondatori dell’Europa unita, la seconda potenza industriale della comunità, tra i tre paesi che maggiormente contribuiscono al club (analizzando la differenza assoluta tra le risorse versate all’Unione e quelle accreditate a ciascun Stato il maggior contributore risulta essere la Germania, con 83,5 miliardi di euro, seguono la Francia con 46,5 mld e l’Italia con 37,9 miliardi). Ma, è evidente, nella partita ha sicuramente giocato poco e male il governo.
Consoliamoci, però: dall’Ue non è arrivata la sede dell’Ema ma, puntuale, la solita ramanzina sui conti pubblici. Nella manovra per il 2018 mancano 3,5 miliardi di euro per cui servirà una correzione dello 0,2% del Pil. Tranquilli, però, se ne può parlare in primavera, magari dopo le elezioni. Anche se, avverte il commissario Pierre Moscovici, “tutti devono capire che, chiunque guiderà il Paese l’anno prossimo, è nell’interesse dell’Italia assicurare il rispetto delle regole”. Il M5S è avvisato. Sarebbe, peraltro, anche il caso di ricordare – come fa l’Ocse – che in Italia la pressione fiscale è sempre alle stelle (42,9% del Pil) nonostante un lieve calo di quattro decimi di punto rispetto al 2015. Ma si tratta di quisquilie.