Unioncamere e Sussidiarietà, il rinnovato senso del lavoro

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in foto Andrea Prete, presidente di Unioncamere, Silvana Sciarra, presidente della Corte Costituzionale, e Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà

Disaffezione, esodo, partecipazione, valori, competenza, gusto, passione: per la prima volta si cerca di scoprire “Il senso del lavoro” e a provarci è Unioncamere in collaborazione con la Fondazione per la Sussidiarietà in un confronto a tutto tondo con il Cnel, il Censis, la Corte costituzionale e tanti altri autorevoli attori e studiosi del tema. Che diventa ogni giorno più incandescente e quindi più difficile da maneggiare con gli strumenti attualmente a disposizione.
La fotografia del mercato in Italia desta molta preoccupazione. Un dato su tutti: il 48 per cento dei posti offerti dal mondo produttivo non trova copertura, un terzo per mancanza di capacità di chi aspira a occuparlo e due terzi perché il profilo richiesto è proprio inesistente. Il tutto in un contesto ancora dominato dalle logiche fordiste dell’impegno in fabbrica con novità introdotte di volta in volta per superfetazione.
L’impianto del sistema, insomma, è vecchio. Obsoleto. Modificato più e più volte sulla spinta di esigenze contingenti che introducono correzioni che vanno incontro alle esigenze del momento senza cambiare davvero paradigma. Districarsi in questa selva di norme e contro norme è sempre più difficile anche perché il sentimento generale, lo spirito dei tempi, è tutt’altro da quello conosciuto e studiato dall’approvazione della pietra miliare della Costituzione.
E se è vero che la nostra Repubblica democratica si fonda sul lavoro, come recita il primo articolo della Carta fondamentale, occorre forse tornare alla definizione per scoprirne l’autentico e primitivo significato. Che non è un succedaneo della fatica ma un gioioso senso di auto realizzazione. La certezza di contribuire con la propria testa e le proprie mani all’evoluzione della società. Lavoro, allora, come capacità creativa e laboriosità.
Messa giù così la faccenda cambia completamente di segno. È alla buona volontà delle persone che ci si rivolge, alla loro voglia di miglioramento di sé e dell’ambiente circostante – ambientale, sociale, giuridico – che ci si riferisce e non alla pretesa di avere un emolumento purchessia. Eppure, il 64 per cento degli occupati si sente ingaggiato al solo fine di sostentarsi. La logica del tirare a campare vince su tutte le altre e determina scoramento.
L’edificio del lavoro – di chi lo offre e di chi lo cerca – andrebbe quindi raso al suolo e ricostruito dalle fondamenta perché possa rispondere alle sfide di oggi e del futuro che con queste premesse si affaccia sempre più minaccioso. Non a caso ad abitarlo, questo edificio fatiscente, sono sempre meno giovani con la complicità di un calo demografico a cui occorre porre rimedio se non vogliamo che pavimenti e solai cedano rovinosamente sulla popolazione.
Se il darsi da fare, l’essere artefice del proprio destino, è un bisogno non comprimibile dell’umanità c’è bisogno di recuperare la sensibilità che ha portato i nostri nonni e genitori a ricostruire il Paese ridotto in macerie dalle guerre. Non numeri in un impianto economico che premia pochi e punisce molti ma protagonisti nella ricerca di una propria utilità che può essere il primo passo verso la felicità.
Utopia, forse, ma indispensabile per uscire dalla crisi profonda di una civiltà che sembra aver perso la bussola dopo aver contribuito a tenere ferma la rotta della democrazia e della libertà. In questa prospettiva appare centrale la riflessione svolta da Andrea Prete, Renato Brunetta, Giuseppe Tripoli, Giorgio De Rita, Francesca Coin, Tiziano Treu, Silvana Sciarra, Luca Antonini, Carlo Borgomeo, Vincenzo D’Adamo, Simonetta Iarloni, Laura Lega, Massimo Luciani e Giorgio Vittadini.