Ue, rapporto Draghi: le divergenze emerse con von der Leyen

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Bruxelles, 9 set. (askanews) – La presentazione del rapporto sul futuro della competitività europea da parte di Mario Draghi, insieme alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, oggi a Bruxelles, ha fatto emergere chiaramente alcune divergenze tra i due nella visione, nelle prospettive e nelle risposte per l’economia dell’Ue. In particolare per quanto riguarda eventuali nuove emissioni di debito Ue, la struttura del mercato elettrico europeo, la eccessiva regolamentazione comunitaria, in particolare nel settore delle tecnologie digitali e dell’Intelligenza artificiale, e anche l’obbligo di produrre dal 2035 solo auto a zero emissioni, non abbastanza allineato ad altri provvedimenti che lo rendano realizzabile.

La più evidente di queste divergenze riguarda la necessità, evocata da Draghi e ignorata da von der Leyen, di ricorrere a nuove emissioni di debito comune (come quelle che hanno finanziato il piano di ripresa post-pandemico ‘NextGenerationEU’ e il programma ‘Sure’ per il sostegno ai sistemi nazionali di cassa integrazione) per finanziare progetti comuni soprattutto nei settori della difesa, delle infrastrutture e interconnessioni energetiche, della ricerca e innovazione.

Draghi ha ricordato che, secondo le stime della stessa Commissione europea, per raggiungere gli obiettivi indicati dal suo rapporto ‘è necessario un un investimento annuale aggiuntivo minimo di 750-800 miliardi di euro, corrispondente al 4,4%-4,7% del Pil dell’Ue’. Il debito comune, ha puntualizzato l’ex premier italiano ed ex presidente della Bce, ‘non è un obiettivo in sé, ma uno strumento’, che sarà comunque necessario perché gli investimenti privati non basteranno comunque, anche se dovessero aumentare considerevolmente, nel caso in cui si riesca a mettere a frutto al massimo i vantaggi del mercato unico e soprattutto a completare finalmente l’Unione dei mercati dei capitali nell’Ue.

Von der Leyen, invece, rispondendo a una domanda in conferenza stampa con una posizione ferma all’ortodossia finanziaria tedesca, ha detto chiaramente che sul tavolo ci sono solo due opzioni per finanziare gli investimenti necessari: un aumento delle contribuzioni nazionali degli Stati membri al bilancio Ue, oppure nuove ‘risorse proprie’ europee, da aggiungere a quelle attuali (soprattutto i dazi doganali riscossi sulle importazioni di merci da paesi extracomunitari e una percentuale del gettito dell’Iva). Tra queste nuove ‘risorse proprie’ potrebbero esserci una tassa sui profitti delle multinazionali, la nuova ‘carbon tax’ alle frontiere (Cbam) e prelievi sul sistema europeo di scambio dei permessi di emissioni (Ets). Ma sarebbero comunque pochi miliardi all’anno (17 miliardi, secondo i progetti già esistenti).

Quanto all’aumento delle contribuzioni nazionali alle casse Ue, poi, si tratta di uno dei tradizionali terreni minati della politica comunitaria, come dimostrano i negoziati interminabili e difficilissimi che ogni sette anni si svolgono tra gli Stati membri per decidere il Quadro pluriennale di bilancio.

Inoltre, lo stesso Draghi ha criticato l’approccio che vede solo nel bilancio Ue (e non nell’emissione di nuovo debito comune) la possibilità di finanziare gli investimenti pubblici che saranno necessari. Il bilancio Ue ‘non è abbastanza focalizzato’, è ‘altamente frammentato’ e ‘c’è un alto rischio che il denaro vada in diversi canali’, ha detto Draghi, anche se poi ha prospettato la possibilità di una ‘riforma’ in particolare dei fondi di coesione, che, ha indicato, potrebbero essere usati maggiormente per finanziare i ‘cluster’ della ricerca e innovazione industriale, e poi per la digitalizzazione, i trasporti, l’istruzione e la connettività.

Sul mercato elettrico, Draghi è stato particolarmente duro, partendo dalla considerazione che gli alti prezzi dell’elettricità nell’Ue sono uno degli handicap maggiori che l’industria europea ha nei confronti della concorrenza internazionale. E non ha detto nulla sulla riforma del mercato elettrico, approvata da pochi mesi, che evidentemente non considera sufficiente.

‘Abbiamo l’opportunità – ha detto l’ex premier italiano – di abbassare i prezzi dell’energia. Una volta che osserviamo attentamente i nostri mercati energetici, vediamo un mercato che è stato progettato per un periodo in cui il gas naturale e i combustibili fossili erano la componente più importante del mix energetico. Ora non è più così: il gas naturale nel 2019, 2020, 2022, nonostante rappresenti circa il 20% del mix energetico, ha fissato il prezzo il 60% delle volte. E’ un mercato che, grazie a contratti a lungo termine, ma anche ad altre cose, è davvero dominato, credo, da interessi acquisiti. È un mercato che è anche gravato da controlli finanziari. Ed è un mercato che è diventato una mucca da mungere per far soldi per i bilanci nazionali degli Stati membri’. Nell’Ue, ‘la tassazione dell’energia è una delle più alte al mondo, se non la più alta’.

Quindi, ha concluso Draghi, ‘tutto questo si traduce nel fatto che non siamo in grado di trasferire i benefici dell’energia meno costosa prodotta dalle fonti rinnovabili ai nostri consumatori, sia alle famiglie che all’industria. Perciò, dobbiamo avere un piano per raggiungere questo obiettivo: in primo luogo disaccoppiare il prezzo dell’energia derivante dai combustibili fossili da quello delle fonti di energia pulita, in modo che gli utenti finali vedano i benefici della decarbonizzazione nelle loro bollette’.

Piuttosto dura anche la critica di Draghi agli ostacoli normativi che l’Ue, a suo dire, pone alle tecnologie digitali avanzate, l’innovazione e l’Intelligenza artificiale. ‘Abbiamo proclamato che l’innovazione era al centro della nostra azione, e poi abbiamo fatto tutto il possibile per mantenerla a un livello basso’, ha osservato.

Su questo, ha continuato, ‘c’è un punto del rapporto che è davvero significativo: è nel capitolo sulla digitalizzazione e le tecnologie avanzate’. Qui l’ex premier ha cominciato a leggere alcuni paragrafi del proprio rapporto (dalla pagina 22 della prima parte): ‘Le barriere normative limitano la crescita in diversi modi. In primo luogo, procedure complesse e costose nei sistemi nazionali frammentati scoraggiano gli inventori dal presentare diritti di proprietà intellettuale, impedendo alle giovani aziende di sfruttare il mercato unico. In secondo luogo – ha proseguito Draghi -, la posizione normativa dell’Ue nei confronti delle aziende tecnologiche ostacola l’innovazione: l’Ue ha ora circa 100 leggi incentrate sulla tecnologia e oltre 270 regolatori attivi nelle reti digitali in tutti gli Stati membri. Molte leggi dell’Ue adottano un approccio precauzionale, dettando specifiche pratiche commerciali ‘ex ante’ per evitare potenziali rischi ‘ex post’. Ad esempio, l’AI Act impone requisiti normativi aggiuntivi sui modelli di Intelligenza artificiale per uso generale che superano una soglia predefinita di potenza di calcolo, una soglia – si puntualizza nel rapporto – che alcuni modelli all’avanguardia superano già’.

‘In terzo luogo – ha aggiunto l’ex presidente della Bce, citando sempre il proprio rapporto -, le aziende digitali sono scoraggiate dal fare affari in tutta l’Ue tramite filiali, poiché devono affrontare requisiti eterogenei, una proliferazione di agenzie di regolamentazione e la ‘gold plating’ (ovvero un’applicazione che va oltre i requisiti minimi richiesti, ndr) della legislazione Ue da parte delle autorità nazionali. In quarto luogo, le limitazioni all’archiviazione e all’elaborazione dei dati creano elevati costi di conformità’. Fine della citazione.

Ma Draghi non si è fermato qui. ‘Si stima – ha sottolineato – che il regolamento Ue sulla protezione dei dati abbia ridotto i profitti delle piccole aziende tecnologiche di oltre il 15%. Ecco un problema generale: tutte queste normative che richiedono la conformità, per essere rispettate hanno bisogno di persone; ma queste aziende sono piccole aziende, hanno spesso solo due o tre persone. Quello che ho davvero capito da alcuni di loro, che ora lavorano negli Stati Uniti, che hanno lasciato l’Europa, è che non possono permettersi di assumere persone semplicemente per rispettare questa legislazione’.

Secondo Draghi, quindi, ‘la conclusione è che gran parte di questa legislazione si applica alle grandissime aziende, a cinque o sei grandi aziende statunitensi, e in realtà noi stiamo uccidendo le nostre piccole aziende. Non abbiamo grandi aziende come negli Stati Uniti, le nostre sono tutte piccole aziende, quindi con questa legislazione che ci siamo dati siamo in realtà autodistruttivi, stiamo uccidendo le nostre aziende’, ha insistito.

L’ex premier italiano ha risposto successivamente ad alcune domande sulle politiche climatiche dell’Ue. Dopo aver riconosciuto che il sistema europeo di scambio dei permessi di emissioni (Ets) è stata ‘una misura importante per ridurre le emissioni, una misura efficace’, Draghi ha osservato: ‘La cosa da tenere a mente sul clima, ancora una volta, è assicurarsi che tutte le politiche siano allineate, quindi che le politiche climatiche siano allineate con le politiche industriali, e che queste siano allineate con le politiche commerciali e così via. Per fare un esempio, abbiamo chiesto ai produttori di automobili veicoli a zero emissioni entro il 2035’.

‘Ma allo stesso tempo – ha obiettato l’ex presidente della Bce -, non abbiamo chiesto a tutti i fornitori di energia, ai fornitori di elettricità, un obbligo simile di fornire energia e di costruire i punti di rifornimento elettrico con lo stesso ritmo. Beh, questo è un grave disallineamento, perché quello che succede ora è che se guardiamo al 2035 e ci chiediamo quante colonnine per la fornitura di elettricità ai veicoli elettrici dovranno essere prodotte affinché tale obiettivo venga raggiunto nel 2035, otteniamo – ha concluso Draghi – un numero molto, molto considerevole’.