Elezioni francesi alle spalle, ormai, sui media nazionali lo spazio è nuovamente occupato dalla pantomima dei politici nostrani alle prese, sembrerebbe finalmente, questa volta, con la legge elettorale. La quale, però – come ha scritto con esplicita chiarezza Mauro Calise sul Mattino – probabilmente non sarà mai votata dal Parlamento, non in questa legislatura, almeno, “per la semplice, lapalissiana ragione che ogni partito, grande o piccolo, è disposto a votare soltanto un provvedimento fatto a proprio uso e consumo”. E, dunque, allorquando si tornerà alle urne, si voterà con il sistema “Presingirum”, ha sottolineato il politologo. Insomma – è lecito pensare – saremo punto e capo.
E, tuttavia, è proprio all’esperienza francese che bisognerebbe guardare nella prospettiva di poter rimuovere i “lacci e lacciuoli” che non soltanto frenano la nostra economia, ma ci spingono inevitabilmente a fondo. È appena il caso di ricordare, peraltro, che nel primo trimestre di quest’anno la produzione industriale è tornata a calare (-0,3%), mentre i bollettini delle centrali di osservazione esterne – leggi, la Commissione UE – ad una pur timida apertura di credito, accompagnano nuovamente stime di crescita invernali invariate (+0,9% nel 2016 e 2017, e +1,1% nel 2018). E ammesso che abbiano rivisto al ribasso – è vero – le stime sul deficit, è solo per rilevare gli effetti positivi della manovra-bis impostaci (2,2% quest’anno, a febbraio era dato a 2,4%; e 2,3% nel 2018, a febbraio 2,6%). Del resto, come hanno scritto, è pure rivisto in “leggero deterioramento” il deficit strutturale. Insomma, i numeri proprio non cambiano. Anzi.
Ma torniamo alla legge elettorale, alla necessità, cioè, di dotare il paese di un sistema di votazione capace di assicurare governabilità, stabilità e, naturalmente, cambiamento senza alimentare, da una parte, paure o, peggio, isterie collettive; e dall’altro, interessi di nicchia di partiti, partitini o gruppi di amici. Un sistema – si direbbe – funzionalmente in equilibrio, fatto di pesi e contrappesi, come appunto la dottrina politica francese insegna. Certo, un equilibrio non facile da raggiungere, visto che in epoca contemporanea anche alla stessa Francia sono stati richiesti ripetuti, opportuni e seri aggiustamenti costituzionali. Cinque, per l’esattezza.
Certo, si dirà, se per uscire dalle attuali sabbie mobili sforzo e percorso della politica obbligano di arrivare, come in Francia, alla V Repubblica il cammino da fare è davvero ancora lungo per il Belpaese. Anche perché, dopo la Seconda – quella cosiddetta di Tangentopoli e della modifica del Titolo quinto (un numero che ricorre, evidentemente, nelle architetture costituzionali) con il rigurgito di un federalismo anacronistico e pasticciato che ha aggravato invece di risolvere alcuni problemi – come si sa, la Terza Repubblica in Italia è morta prima ancora di poter emettere un gemito.
La Riforma costituzionale proposta dalla Boschi, infatti – è storia recente – è stata sonoramente bocciata dagli italiani, vuoi perché scritta male e vuoi, ancor più, perché insieme ad una serie di provvedimenti legislativi a dir poco scadenti (Jobs act, abolizione delle province, legge della cosiddetta buona scuola e via discorrendo) questa classe politica è stata, giustamente o ingiustamente, vista non come riformatrice, bensì associata a manovre di volgare potere finanziario che ne hanno inevitabilmente indebolito l’azione. E i cui strascichi polemici ancora alimentano le cronache dei giornali, come appunto ricordano gli echi della vicenda della Banca Etruria e del conflitto di interesse della ministra Maria Elena Boschi (sempre lei) denunciato in un libro dall’ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli. E poi, per dirla proprio tutta, fatte le debite differenze, Matteo Renzi non è certo Charles De Gaulle, né la Boschi Michel Debré.
Riforme improbabili, dunque. Che in alcuni casi stanno ledendo – per esempio – il diritto allo studio di migliaia di studenti che, nel caso della Provincia di Caserta (ed è solo il primo) si sono visti le scuole chiuse a poco più di un mese dall’esame di Stato, perché gli edifici non rispettano gli standard minimi di sicurezza. Province mai del tutto abolite, com’era nelle intenzioni del governo, ma lasciate colpevolmente nel limbo. Enti che non hanno nemmeno i fondi per pagare gli stipendi, oltre che per manutenere gli edifici scolastici e rattoppare le strade.
Né confortare – in questo deserto – leggere che la crisi non è solo italiana; che il mercato del lavoro di tutta l’Eurozona versa in condizioni peggiori di quello che appare dalle cifre, come scrive il rapporto della BCE e come ha ribadito lo stesso Mario Draghi. Anche perché – e così torniamo al punto di partenza – ai tanti e acritici estimatori di Macron probabilmente una cosa non è ancora chiara. L’Europa politica sta cambiando, è vero. L’asse Parigi-Berlino non è un’ipotesi, è già realtà. Rileggersi, in proposito, l’intervista di Wolfgang Schäuble su Repubblica dello scorso giovedì.