Tassi, immigrazione, debito e corruzione. Troppi rischi per l’Italia

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La Fed non sorprende e rimanda la stretta monetaria. Com’era nelle attese dei mercati. E sulla stessa lunghezza d’onda si muove anche la Bank of Japan (Boj). Al termine della consueta due giorni (l’ultima i 26 e 27 scorsi) il Federal Open Market Committee, braccio monetario della Banca Centrale americana, ha lasciato i tassi invariati allo 0,25-0,50%. Decisione che, per una volta, è stata condivisa dalla quasi totalità del board.

L’attuale costo del denaro – come si ricorderà – risale allo scorso dicembre, quando fu deciso un incremento di 25 punti base: era la prima stretta monetaria dal lontano giugno 2006 cui, per ammissione della stessa Fed, ne dovranno seguire almeno altri tre. Aumenti graduali, dunque. Ma, per intanto, ciò non è avvenuto. I più recenti dati macroeconomici, infatti, confermano il rallentamento della ripresa economica negli Usa. E non solo. Per gli amanti delle statistiche è questa la terza volta di fila che la banca centrale guidata da Janet Yellen non modifica il costo del denaro.

Decisione analoga – s’è detto – è stata presa, a seguire, anche dalla Boj, che infatti ha confermato i tassi d’interesse allo 0,10% in negativo introdotto a fine gennaio scorso e il piano di espansione della base monetaria, portato a 80.000 miliardi di yen l’anno (648 miliardi di euro al cambio attuale) nell’ottobre del 2014.

Ovviamente, la reazione registrata sui mercati valutari è stata – com’era da aspettarsi – in entrambi i casi immediata, forte, ma anche di segno opposto. Nel senso che, nel rapporto della coppia euro-dollaro, la valuta base è schizzata a 1,1368, vale a dire, ai massimi da circa una settimana. Viceversa lo yen, che nel rapporto col dollaro è al denominatore, è sceso ai minimi degli ultimi otto mesi a 108.74 (circa 300 pip) e ha poi continuato la discesa fino 107,91 e oltre. Ieri ha toccato 106,90. E, dunque, apprezzandosi notevolmente sulla divisa americana.  

Effetti che, comunque li si voglia interpretare, restano in ogni caso indicativi del clima di generale incertezza che regna rispetto alla ripresa la quale, da ovest ad est, stenta davvero a decollare. Ed è questa una situazione di cui Mario Draghi, presidente italiano della Banca centrale europea, è ben consapevole, tanto che resta fermamente convinto della validità delle misure di stimolo (QE) adottate dalla Bce per la claudicante economia dell’Unione Europea. “Sulla politica monetaria non ci sono alternative”, ha detto infatti in un’intervista alla Bild, importante quotidiano tedesco. Anzi, ormai nel mirino di un pezzo importante dell’establishment teutonico, proprio per via delle politiche di espansione monetaria, ha aggiunto: “Che differenza farebbe se al posto mio ci fosse un governatore di nazionalità diversa? Nessuna. Farebbe le stesse scelte, quelle di tutte le altre banche centrali del mondo”. E, infine, sottolineato: “Sì, sono italiano ma non aiuto Roma o Parigi”.

Misure di stimolo, dunque, ancora maldigerite dai sacerdoti del rigore di cui autorevole interprete è il presidente della Bundesbank, Jeans Weidmann. Il quale, a Roma per un convegno sul tema, non si è certamente lasciato scappare l’occasione per richiamare quanti si sono detti “ottimisti” circa l’auspicata riforma del patto di stabilità, a cominciare dal nostro ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. “Paesi con debito alto minacciano tutti”, ha ribadito Weidmann. Aggiungendo: un’ampia condivisione dei rischi fra gli Stati dell’Eurozona, senza un meccanismo rafforzato di controllo comune, “rappresenterebbe un percorso sbagliato” e non creerebbe i “forti incentivi a rispettare le regole”.  Di più: “Da quando esiste l’Unione monetaria le regole del patto di stabilità e crescita sono state violate da alcuni Stati, fra i quali anche l’Italia, più spesso di quanto siano state” osservate, ha aggiunto.

La verità è che fare quadrare i conti pubblici italiani è davvero difficile. E sarà così anche quest’anno. Certo sarebbe meno difficile se anche la zavorra dei derivati sottoscritti dal Tesoro negli anni passati non presentasse ogni anno la sua cambiale miliardaria da pagare, riducendo perciò gli effetti dei risparmi sui tassi di interesse e quelli delle privatizzazioni di quote societarie pubbliche. Sorvolando sui tecnicismi, è questo il dato emerge in modo lampante dal Documento di economia e finanza 2016 che proprio nei giorni scorsi ha incassato il via libera della Camera.

Con l’Europa, invero, quella dell’austerity non è l’unica partita diplomatica che si sta giocando in questi giorni. Direttamente o indirettamente, infatti, il problema dell’immigrazione è un macigno che incombe sempre di più sulla nostra testa. La decisione di Vienna di ripristinare, per esempio, i controlli di frontiera al Brennero può avere pesanti risvolti economici. Danni tra i 5 e i 10 miliardi, calcola la Cgia di Mestre. Sarebbe colpito soprattutto il settore dell’autotrasporto che ogni anno sposta 29 milioni di tonnellate di prodotti in entrata e in uscita, vale a dire un terzo di tute le merci che si muovono in Italia.

Infine, di drammatica attualità sempre il bubbone della corruzione. A finire sotto inchiesta, stavolta, è il presidente del Pd campano, Stefano Graziano, accusato di concorso esterno in associazione camorristica, insieme ad un sindaco e ad alcuni professionisti. Il dibattito tra garantisti e colpevolisti diventa nuovamente incandescente sulle parole dell’ex pm di Mani pulite, Piecamillo Davigo, che guida il sindacato dei magistrati, la cui tesi mi pare sia questa: tutti i politici sono corrotti, si tratta solo di dimostrarlo. Cui fa eco il presidente del Consiglio, nonché segretario del Pd, Matteo Renzi: dovrebbero essere le sentenze a parlare non i magistrati. Finora ce ne sono state poche e sono giunte spesso molto in ritardo rispetto a tempi processuali accettabili. A buttare acqua sul fuoco ci prova, allora, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “La corruzione dei politici è la più grave: combatterla è un impegno di tutti”. A cominciare dal Parlamento, che infatti è già a lavoro per allungare i tempi di prescrizione del reato.

Un grande segno di civiltà giuridica.