Tasse, allarme dalla Cgia di Mestre: le Pmi colpite 120 volte più dei giganti del web

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Come Davide contro Golia. La CGIA, piccola e battagliera associazione di artigiani e padroncini del Nordest, si scaglia contro i giganti del web che, a differenza delle nostre Pmi, continuano a fare ricavi da capogiro, senza versare al fisco quanto dovuto. Sino alla fine dell’anno scorso, infatti, hanno continuato a trasferire buona parte degli utili ante imposte realizzati in Italia nei paesi a fiscalità di vantaggio. Risultato? Grazie a queste operazioni elusive, il nostro erario ha incassato da queste WebSoft solo le briciole. Vediamo i numeri emersi dal confronto messo a punto dall’Ufficio studi della CGIA.

Se le nostre piccole imprese pagano ogni anno 24,6 miliardi di tasse[1], le 25 multinazionali del web presenti in Italia[2], invece, ne versano molte meno: secondo l’Area Studi di Mediobanca solo 206 milioni di euro[3]. Certo, le dimensioni economiche di queste due realtà sono molto diverse, ma, dal punto di vista degli artigiani mestrini, il risultato che emerge è sconsolante. Se le aziende italiane prese in esame producono un fatturato annuo 90 volte superiore a quello riconducibile alle big tech, in termini di imposte, invece, le prime ne pagano ben 120 volte più delle seconde[4]. Insomma, possiamo affermare con buona approssimazione che la distanza in termini di fatturato non giustificano quella relativa al gettito, così svantaggiosa per le Pmi. Certo, quella appena richiamata è una comparazione che presenta una serie di limiti metodologici e non ha alcun rigore scientifico. Tuttavia, il ricorso sistematico all’elusione praticato negli anni ha aumentato questa disparità di trattamento, mettendo in evidenzia in misura inequivocabile che, in Italia, alle grandi multinazionali, in questo caso tecnologiche, continua a essere riservato un prelievo fiscale ingiustificatamente modesto.

Ora è in arrivo la Global minimum tax, anche se non in tutta UE

Evidentemente, in Italia c’è un trattamento fiscale che “penalizza” i piccoli e “favorisce” i giganti. Infatti, se sui nostri imprenditori grava un tax rate effettivo che sfiora il 50 per cento, sulle big tech, invece, si attesta, secondo l’Area Studi di Mediobanca, al 36 per cento. E sebbene da quest’anno entri in vigore la Global minimum tax (Gmt), secondo il dossier curato dal Servizio Bilancio dello Stato della Camera[5], il gettito previsto dalla sola applicazione dell’aliquota del 15 per cento sulle multinazionali sarà molto contenuto. Si stima che nel 2025 il nostro erario incasserà 381,3 milioni di euro, nel 2026 427,9 e nel 2027 raggiungerà i 432,5. Nel 2033, ultimo anno in cui nel documento si stimano le entrate, le stesse dovrebbero sfiorare i 500 milioni di euro. Nel 2024 la Gmt interesserà 19 paesi UE: Spagna e Polonia, invece, si adegueranno a partire dall’anno prossimo, mentre Estonia, Lettonia, Lituania, e Malta hanno ottenuto una proroga sino al 2030. Cipro e Portogallo, infine, sono chiamate a rispondere alla sollecitazione giunta da Bruxelles che ha recapitato loro una lettera di messa in mora. Appare evidente che per le grandi holding presenti nei in UE rimane ancora la possibilità, almeno per i prossimi 5/6 anni, di spostare parte degli utili in alcuni paesi membri dove la tassazione continua essere molto favorevole.

Stop alla fuga degli utili nei paesi a fiscalità di vantaggio

Ora, con una manovra per il 2025 ancora tutta da scrivere, visto che recuperare una decina di miliardi di euro di coperture non sarà un’operazione per nulla facile, bisognerebbe chiedere qualche sacrificio aggiuntivo in particolare a chi, in questi ultimi anni, ha registrato profitti straordinariamente elevati, ma ha versato poche tasse, perché ha fatto ricorso a tecniche elusive che gli hanno consentito di spostare una parte degli utili ante imposte realizzati in Italia nei paesi a fiscalità di vantaggio. Sappiamo che le regole della Gmt sono molto articolate ed è verosimile ritenere che ogni norma di carattere nazionale potrebbe non essere sufficiente a rendere il prelievo fiscale più equo. Nonostante ciò è indispensabile trovare un compromesso che non pregiudichi la fuga di queste aziende dal nostro Paese, ma allo stesso tempo le costringa a pagare il giusto, o quasi.

L’elusione è una pratica che riguarda ormai tutti i grandi player

Tuttavia, non sono solo i giganti stranieri del web a sfruttare la fiscalità di vantaggio concessa ancora adesso da molti Paesi europei. Da alcuni anni, infatti, anche alcuni grandi player italiani hanno trasferito la sede fiscale o quella legale, magari solo di una consociata, all’estero. Molte di queste hanno deciso di spostare la sede legale nei Paesi Bassi, ad esempio, perché lì è possibile beneficiare sia di una legislazione societaria molto favorevole – che permette agli azionisti storici di avere il doppio dei voti in assemblea, modalità che consente di difendersi meglio da eventuali scalate provenienti da investitori stranieri – sia, eventualmente, di un trattamento tributario alquanto generoso, che il governo olandese riserva a ogni big company disposta ad aprire la sede fiscale ad Amsterdam. Con queste operazioni, formalmente ineccepibili da un punto di vista fiscale-societario, si è però ridotta la base imponibile di coloro che pagano le tasse in Italia, penalizzando, come abbiamo visto, in particolar modo le realtà imprenditoriali di piccola e piccolissima dimensione che, a differenza delle grandi aziende, non hanno la possibilità di lasciare armi e bagagli e trasferirsi altrove.

Solo in Molise e Valle d’Aosta le big tech pagano più delle imprese locali

Ancorché il risultato della comparazione che commentiamo più sotto risenta di alcune fragilità presenti nella metodologia di calcolo adottata, l’Ufficio studi della CGIA ipotizza che solo le imprese presenti in Molise e in Valle d’Aosta pagano in termini assoluti meno tasse delle principali big tech ubicate nel nostro Paese[6]. Un banalissimo caso di scuola riesce a dimostrare come il carico fiscale su questi giganti sia molto inferiore a quello in capo alle imprese italiane che, per oltre il 98 per cento del totale, hanno meno di 20 addetti. Pertanto, se nella regione più piccola del Mezzogiorno il gettito delle principali imposte pagate dalle aziende residenti in questo territorio è pari a 175 milioni di euro e in Valle d’Aosta a 190[7], nel 2022 i giganti del WebSoft hanno prodotto 9,3 miliardi di fatturato e versato al fisco italiano complessivamente 206 milioni di euro. Nulla a che vedere con quanto “contribuiscono” le imprese lombarde che, invece, pagano all’erario 125 volte in più di quanto versano questi 25 colossi digitali, quelle laziali 56,7 in più, quelle emiliano-romagnole 38 e quelle venete 36,8 (vedi Tab. 1).

[1] Stiamo parlando di 2,9 milioni di imprese con un fatturato annuo inferiore a 5 milioni di euro. Le imposte calcolate sono Irpef, Ires e Irap.

[2] Adobe, ADP, Alibaba, Alphabet, Amazon (10 società con sede in Italia), Booking, IBM, JD.com, Meta, Microsoft, Oracle, Otto, SAP, Salesforce, Uber e Vipshop.

[3] Software & Web Companies (2019-2023), Milano, 14 dicembre, 2023. L’importo di 206 milioni di euro include anche la Digital Service Tax. Quest’ultima è un’imposta pari al 3% dei ricavi generati nel periodo di imposta derivanti dalla fornitura di servizi digitali, applicata alle imprese che, individualmente o a livello di gruppo, hanno realizzato un ammontare di ricavi pari o superiori a 750 milioni di euro e ricavi derivanti da servizi digitali realizzati nello Stato italiano non inferiori a 5,5 milioni di euro.

[4] Il fatturato delle piccole imprese italiane nel 2021 (ultimo anno in cui il dato è disponibile) è stato pari a 839 miliardi di euro. Nel 2022 quello delle 25 principali big tech presenti nel nostro Paese ha toccato i 9,3 miliardi di euro.

[5] Schema di decreto legislativo recante attuazione della riforma fiscale in materia di fiscalità internazionale, Atto del Governo n. 90, novembre 2023.

[6] La quasi totalità opera a Milano e provincia.

[7] Ultimo dato disponibile riferito al 2021.