Steph Curry, il giocatore più emozionate della storia del basket

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Milano, 16 ago. (askanews) – È stato senza dubbio uno dei grandi protagonisti delle Olimpiadi di Parigi ed è uno degli sportivi più noti al mondo, ma è anche un personaggio abbastanza particolare e unico: stiamo parlando di Steph Curry, stella sorridente dell’NBA, a cui Dario Costa, giornalista esperto di basket, ha dedicato una interessante biografia, edita da 66thand2nd.

“C’è una bellissima definizione che vorrei che fosse mia – ha detto Costa ad askanews introducendoci nel mondo dei Curry – invece è di Bruce Jenkins, che è una firma storica del San Francisco Chronicle, che già qualche anno fa, definendo Curry aveva detto che Michael Jordan rimane il miglior giocatore di basket di sempre. Qualcuno ora ci mette anche LeBron James in quel ruolo, ma a prescindere, insomma, uno di questi due è il miglior giocatore della storia del basket. Steph Curry, però, è il giocatore più divertente della storia del basket. E effettivamente lo rimane, nel senso che credo che sia oggi come oggi probabilmente il giocatore che regala più emozioni, veramente più sussulti durante una partita di pallacanestro e devo dire che anche alle Olimpiadi ne abbiamo avuto una discreta prova”.

Quelle quattro triple incredibili negli ultimi minuti della finale olimpica con la Francia sono destinate a restare nella memoria, e il tiro da tre è un po’ il marchio di fabbrica di Curry. Ma, vedendolo giocare dal vivo, colpisce soprattutto il modo in cui si muove sul campo e spesso si materializza sotto canestro come se apparisse dal nulla. “Una delle cose più interessanti – ha aggiunto lo scrittore – è capire che cosa succede prima di quel tiro e prima di quel tiro di solito c’è appunto un movimento continuo per tutto il campo e soprattutto la capacità di occupare una zona di campo che è più o meno, giusto per essere un po’ chiari, è diciamo quella che va dal centrocampo a un po’ prima della linea del tiro da tre punti e che prima, diciamo così, del successo di Steph Curry in NBA, era un’area sostanzialmente in cui non si giocava, dove c’era un po’ il preambolo dell’azione, si portava a palla ma non succedeva niente in quella zona”.

Da questa terra di nessuno parte la storia raccontata in “Steph Curry – Gioia e rivoluzione”, che analizza la carriera, la vita, l’esposizione mediatica, i dubbi e gli atteggiamenti di un ragazzino che ha saputo diventare un campione, senza snaturarsi troppo. “La cosa che rende unico Steph Curry, possiamo dire, – ha concluso Dario Costa – è che ha unito quel tipo di ossessività che conosciamo bene e arriva, per esempio, da Michael Jordan, da Kobe Bryant, che sono da questo punto di vista gli esempi più lampanti di questo tipo di ossessività, di voglia di migliorarsi, di esplorare ogni aspetto del gioco. Ecco, Curry ce l’ha questo, ma rispetto a quei modelli precedenti è riuscito a unire quella gioia quasi bambinesca di continuare a giocare a pallacanestro, sembra un ragazzo che si diverte. In realtà dietro a quei canestri compresi quelli che abbiamo visto alle Olimpiadi, c’è un lavoro massacrante, un lavoro quotidiano”.

Un lavoro che però è tutt’uno con il sorriso – a volte aperto a volte, soprattutto per gli avversari, beffardo – che resta a oggi la firma di Steph Curry.