La presenza di Qassem Alì Soleimani, capo delle milizie Al Quds (Gerusalemme) dei “Guardiani della Rivoluzione” iraniana, oggi in Iraq, è strategicamente significativa.
Certo, stando alla stampa di Teheran, Soleimani sarebbe stato l’autore unico e solo della distruzione del sedicente “califfato” di Al Baghdadi, che è stato recentemente eliminato dalle Forze Speciali Usa, su probabile induzione turca.
Non è del tutto falso: le varie forze sciite, dall’Iran e dall’Iraq, hanno condotto circa 3000 operazioni militari contro la rete di Al Baghdadi.
E anche Soleimani rimane il titolare strategico della stabilità, se così si può chiamare, del Libano, pur con la solida presenza di Hezb’ollah nel governo del recentemente dimessosi, il 29 ottobre scorso, ovvero Saad Hariri, presidente dell’ugualmente dimessosi governo libanese, malgrado le pressioni di un grande amico cristiano degli iraniani e dei siriani, Michel Aoun.
Presidente del Libano. E certo non sgradito, da maronita, a Teheran e a Damasco.
L’idea che il governo di Saad Hariri, amico dell’ingenuo occidente e delle monarchie sunnite del Golfo, ma di fatto in mano a Hezbollah e Amal, due movimenti sciiti e iraniani libanesi, potesse sopravvivere alla crisi economica, che rimane anche dopo gli 11 milioni di Usd prestati dalle monarchie sunnite e dagli Usa, e dopo le rivolte sciite di Beirut e del Sud del Paese, era del tutto immotivata.
Se cade Beirut, l’Iran deve rafforzare l’Iraq, e viceversa. E’ ovvio, se studiamo le strutture politiche di entrambi i Paesi e il loro ruolo per Israele e gli Usa.
In Siria, comunque, ha vinto la Federazione Russa, non l’Iran, ma è anche vero che la Repubblica sciita, anche grazie a Qassem Soleimani, è capace di battersi bene, oggi, sul quadrante di Damasco, mantenendo un livello di ostilità tale da minimizzare la possibilità di una rappresaglia contro le forze iraniane sia in Siria che in patria.
L’Iran, ormai, è penetrato stabilmente nelle strutture informali e ufficiali di difesa siriane e ha, come obiettivo, sia il sostegno a Hezb’ollah e alle forze sciite che lo sostituiranno, per un suo attacco verso sud, ovvero verso Israele, sia verso l’esclusione definitiva di forze Usa, o di alleati degli Usa, da tutto il quadrante dell’asse Siria-Iraq.
Ma il biglietto che conta per l’internazionalizzazione della crisi siriana ce l’ha, ancora, solo Mosca.
La limitazione territoriale e operativa delle forze russe in Siria, soprattutto sul Golan, è, poi, un ulteriore fine strategico degli iraniani in Siria e in Giordania, oltre che, naturalmente, in Iraq.
Qassem Alì Soleimani, spesso unito, nell’iconografia del regime di Teheran, al Rahbar, la Guida Suprema Alì Khamenei, è ritenuto comunque il dirigente militare più vicino alle idee e alle simpatie dello stesso Rahbar.
Da sempre un mito per la pubblica opinione iraniana, arrivato in alto, tra i 13 maggior-generali di Teheran, da un umile lavoro di muratore a Kirman, nel sud iraniano, Soleimani è l’unico altissimo grado delle FF.AA. a parlare direttamente con la Guida Suprema.
Che sta organizzando, Soleimani e il Rahbar, in collegamento con alcuni degli elementi più potenti dei regimi sunniti negli Emirati e nel Regno saudita, una nuova politica di trattative con Riyadh e con tutto il mondo sunnita, dell’Egitto e della Giordania.
La Forza Al Quds comandata da Soleimani organizza oggi da sola, con almeno 12 jet commerciali, peraltro mai segnati in nessun registro, operazioni di import-export a favore di sé stessa e del regime iraniano; mentre milioni di rifugiati in Iran iraqeni, afghani, pakistani, azerbaigiani e del Bahrein hanno rapidamente, tramite Al Quds, ottenuto la cittadinanza nella repubblica fondata da Qomeini.
Un passaporto iraniano è sempre pronto, lo ripetiamo, tramite la Forza di Soleimani, anche a molti cittadini libanesi, pakistani (il 20% degli abitanti del Pakistan è sciita) e del Bahrein.
E si tratta dei punti di forza, prossimi venturi della destabilizzazione iraniana. Che usa le minoranze sciite, ma non solo.
Soleimani, poi, gestisce una rete di inviati speciali della Repubblica sciita di Teheran in tutto il Medio Oriente, che rispondono direttamente a lui che, poi, trasferisce i dati direttamente all’ufficio della Guida Suprema.
La diplomazia parallela e militare di Soleimani è il vero asse di proiezione, oggi, della potenza iraniana nel Grande Medio Oriente, e arriva fino in India e in Occidente.
L’ha detto, circa un mese fa, proprio l’Ayatollah Yatani: “oggi, grazie al generale Soleimani, controlliamo direttamente quattro capitali arabe: Beirut, Damasco, Baghdad e Sana’a”.
Non è del tutto vero, ma certamente la rete di Soleimani è efficace e credibile, almeno per sostenere gli affari che mantengono la Brigata Al Quds e, quindi, anche le sue operazioni politiche di infiltrazione e controllo dei sistemi politici locali.
Certo, il potere di Qassem Soleimani non è così rilevante come lo dipinge la propaganda di Teheran, ma è comunque vero che, in Iraq, il ruolo del generale e della sua Forza Al Quds è davvero importante e determinante.
L’Iraq ha 1559 chilometri di confine con l’Iran; e il grande Paese che fu dominio assoluto di Saddam Hussein ospita, da sempre, una ormai vastissima maggioranza sciita, la seconda al mondo dopo l’Iran e l’India. Che è anche maggioranza nel Paese.
Infatti, è notizia di pochi giorni fa, il generale Qassem Alì Soleimani ha raggiunto in elicottero l’Iraq e si è stabilito a Baghdad, prendendo il diretto controllo delle forze armate sciite e dei loro autonomi servizi di sicurezza.
Certo, il segnale più importante per definire questa decisione iraniana è stato l’attacco al consolato di Teheran a Karbala, la città santa della Shi’a, il 3 novembre scorso, attacco che ha lasciato sul terreno ben tre vittime.
I manifestanti portavano le bandiere dell’Iraq e gridavano “Karbala è libera, fuori l’Iran!”, uno dei tanti segnali di una crescente insofferenza, che non è solo sunnita, contro le forti interferenze di Teheran sulla politica e l’economia iraqena.
L’undici novembre scorso Al-Sistani, il Grande Ayatollah iraqeno sciita, ha dato al governo di Baghdad due settimane di tempo per stabilire quali, tra gli “indisciplinati”, come li ha chiamati eufemisticamente l’esecutivo iraqeno di Adel Abdul Al Mahdi, sono quelli che hanno fatto da cecchini che hanno abbattuto alcuni dimostranti.
Il primo ministro di Baghdad Mahdi ha dichiarato tre giorni di lutto per le vittime delle dimostrazioni a Karbala e altrove, e i numeri sono terribili.
Almeno 110 cittadini iraqeni sono stati assassinati nelle dimostrazioni, oltre 6000 sono i feriti, nelle manifestazioni a Baghdad, Karbala e nel Sud del Paese, e tra i morti ci sono almeno sei elementi delle forze di sicurezza governative.
Mike Pompeo, il Segretario di Stato Usa, ha richiesto al primo ministro iraqeno la massima repressione possibile nei confronti delle manifestazioni, che diventano però sempre più “dure”.
Abdul Al Mahdi ha subito reso noto un suo piano di 13 punti per le riforme, con sussidi economici e case gratis per i poveri, mentre una sessione speciale del parlamento iraqeno si è aperta proprio il giorno 8 ottobre, con riunioni tra il governo e il presidente della Camera Mohammed Al Haboulsi e tra loro e i capi tribali.
Lo stesso giorno, è stato rimosso il presidente della Agenzia Nazionale delle Granaglie a Baghdad, Naeem Al Maksousi, subito sostituito da Mahdi Elwan.
Lavrov, ministro degli esteri russo, è arrivato già il 7 ottobre a Baghdad, per trattare con il governo iraqeno e contenere le proteste, che sono potenzialmente distruttive sia per gli equilibri di Mosca in Siria che per il delicato rapporto che la Federazione Russa intrattiene con l’Iran, tra Iraq, Siria e Afghanistan.
Se l’Iraq diventa viabile per tutte le operazioni di destabilizzazione che oggi passano nel Grande Medio Oriente, i successi russi in Siria, la stabilità del regime di Assad nella stessa Siria, la penetrazione poi del jihad sunnita dall’Afghanistan verso l’Iran, infine la destabilizzazione della Giordania, divengono non solo possibili, ma probabili.
Non si tratta, qui, solamente di una manzoniana “rivolta del pane”, ma di un equilibrio politico tra etnie, tribù e rapporti internazionali dell’Iraq, che oggi sta inevitabilmente saltando.
Comunque, il 30 ottobre scorso, dicevamo, un elicottero ha trasportato Qassem Alì Soleimani dall’aeroporto di Baghdad alla Zona verde, intorno alla capitale iraqena, che è fortificata.
Soleimani ha anche trattato, in una riunione da lui indetta nell’ufficio del Primo Ministro di Baghdad, la questione della rivolta che ha preso forza nella capitale e, soprattutto, nel meridione sciita dell’Iraq.
Soleimani è ormai, di fatto, il vero primo ministro de facto della Repubblica dell’Iraq, soprattutto per quanto riguarda il controllo delle proteste.
“Noi in Iran sappiamo come si controllano queste situazioni, sono accadute anche da noi e le abbiamo poste rapidamente sotto controllo”. Lo ha detto, secondo molte fonti, ai dirigenti politici iraqeni.
E’ quindi un vero colpo di Stato iraniano che è avvenuto in Iraq, a causa o con la scusa delle rivolte, spesso sanguinose, che hanno avuto corso soprattutto negli ultimi quindici giorni.
Ma c’è anche un altro punto debole che si è manifestato, per l’Iran, in un Paese tradizionalmente amico, l’Iraq.
Soleimani e la sua Brigata non sono stati capaci di organizzare Hezb’ollah e la propria rete in Libano, soprattutto per evitare che Saad Hariri, un presidente libanese amico dell’Iran ma collegato alle banche saudite, che lo tengono tra le mani, si dimettesse insieme a tutto il suo governo, compresi i vari, e spesso potenti, ministri, indicati proprio da Hezb’ollah.
L’uscita dimissionaria di Hariri ha anche reso maggiormente possibile una futura soluzione tecnocratica per il governo di Beirut, una soluzione questa che, certamente, diminuirebbe la presa del movimento sciita di Hezb’ollah, sempre addestrato dalle “Guardie della Rivoluzione” iraniana, movimento libanese che era l’”occhio destro” dell’Imam Qomeini.
Se l’Iran perde anche l’Iraq, allora, la sua area di influenza si riduce talmente tanto da permettere una possibile penetrazione del suo stesso territorio.
Il primo ministro iraqeno è, comunque, malgrado la presenza di Soleimani, intenzionato a lasciare il potere.
Quindi, mentre se ne va un governo “amico” di Teheran a Beirut, è in crisi strutturale un altro governo “amico” a Baghdad; ed ecco quindi la ratio della presenza di Soleimani nella capitale iraqena.
Sul confine tra Iran e Iraq, è bene notarlo, vivono i curdi, da entrambi i lati della linea, che sono un vero e proprio scudo umano contro la penetrazione militare di massa dall’Iran verso l’interno dell’Iraq.
Tribù arabo-iraniane, sunnite e sciite, sono anch’esse a cavallo della linea di confine, e tutte le parti in causa sul confine tra i due Paesi, entrambi a maggioranza sciita, hanno a disposizione vaste riserve di petrolio, che controllano quasi del tutto autonomamente.
Per non parlare dei vari fiumi dell’area e, soprattutto, dello Shatt-el-Arab.
Ma chi controlla davvero, in Iraq, Qassem Alì Soleimani? Vediamo.
In primo luogo c’è la rete di Asaib al-Haq, poi operano le Brigate di Mobilitazione Popolare e, infine, quello che rimane delle antiche Brigate Al Badr.
Asaib al-Haq, la “Lega dei Giusti” e, altrimenti detta, la Rete Khazali, ha operato pesantemente anche nella ultima guerra in Siria.
Nella guerra iraqena, dopo la caduta di Saddam Hussein, è stata responsabile di almeno 6000 attacchi contro le forze Usa e della coalizione.
Allora, la “Casa delle Vedove” dove passavano alla fine del loro viaggio verso la fine, i “martiri” jihadisti sunniti, anche quelli che hanno colpito i nostri militari a Nassiriya, era posta in Siria.
Fu da lì che un giovane martire, sunnita, di origine marocchina, passò da fare il lavorante in una macelleria halal della costa catalana alla Moschea di Viale Jenner, a Milano, e infine in Siria, per colpire i nostri uomini proprio a Camp Mittica, a Nassiriya.
Ci informò la Guardia Civil spagnola, che aveva ricevuto, come si fa sempre in questi casi, un po’ di DNA ritrovato sul corpo del “martire” assassino dei nostri.
Quelli di Asaib al-Haq, che è anche un partito politico iraqeno, sono agli ordini diretti delle Guardie della Rivoluzione iraniana e, comunque, fanno istituzionalmente parte della vecchia rete delle Forze di Mobilitazione Popolare.
Si calcola che i militanti e operativi della rete di Asaib e delle Forze di Mobilitazione Popolare valgano oggi per circa 15.000 elementi, tutti comunque ottimamente addestrati, sia in Iraq che in Iran.
Nasce, Asaib, come frazione scissionista della vecchia Army of the Mahdi, quella diretta e fondata da Muqtada al-Sadr (e proprio nella vecchia città “razionalista” di Sadr City sono avvenuti oggi feroci e recentissimi scontri tra i “ribelli” e le forze di polizia iraqene).
Lo stile di lavoro del gruppo miliziano tra la popolazione, ovvero quello di fornire aiuto ai poveri tramite un “welfare religioso”, la stessa politica di Hezb’ollah in Libano, è comunque un costo rilevante per l’Iran.
Hezb’ollah in Libano viene sostenuto, però, da un sistema di finanziamenti privati dei ricchi sciiti locali, dalle aziende, anche sunnite, che operano nelle aree o con clienti iraniani, redditi da investimenti e dalle solite donazioni private.
L’Iran ha dato, direttamente, a Hezb’ollah, ben 450 milioni di Usd, tra il 1983 e il 1989.
Oggi, e questo non conteggia però il sostegno militare operativo e addestrativo agli uomini e alle donne di Hezb’ollah in Libano, si parla di almeno 650 milioni di Usd l’anno, da Teheran direttamente al quartiere sud di Beirut, dove si trova il centro operativo del “partito di Dio” libanese e sciita.
Hezb’ollah prende anche denaro dalle minoranze, spesso potenti, di sciiti fuori dal Medio Oriente, come quelle in Africa Occidentale, negli Usa e anche, importantissima, nella zona del “confine tripartito” tra Paraguay, Argentina e Brasile.
Qui, ci sono anche operazioni, come dimostrato i dati delle agenzie internazionali, che ci dimostrano come la rete di affari del “partito di Dio” si occupi anche, e per rilevanti importi, di traffico illegale di tabacchi e, spesso, di traffico internazionale di droga.
Notizie sull’impegno finanziario iraniano in Iraq ci riferiscono di almeno 16 miliardi di Usd, oggi, per addestrare, sostenere, organizzare le milizie sciite in Iraq.
L’espansione delle Milizie sciite è, peraltro, recente in queste zone, e seguirà, come un fantasma di Banquo, la presenza di Soleimani in Iraq.
La Forza di Mobilitazione Popolare è oggi una organizzazione complessa che è nata nel 2014, per combattere il sedicente “califfato” di Al Baghdadi.
Nel settembre 2019, la rete della FMP sciita si è separata, per ordine del capo iraqeno sciita Abu Mahdi Al Muhandis, dal resto delle FF.AA. iraqene, e questo deriva, come scelta politica dell’Iran, da una serie di bombardamenti aerei che le basi del FMP hanno subito, in Iraq, negli ultimi tre mesi.
La Rete sciita ha accusato Israele, che non ha né confermato né negato l’addebito.
Ma non è detto che questa rete sciita sia, ormai, avversa anche a molte delle forze settarie che operano sul terreno iraqeno, tra sunniti e curdi.
La nascita della grande alleanza militare sciita, sotto l’ombrello della Forza di Mobilitazione Popolare, nasce comunque da una fatwa del Grande Ayatollah al Sistani, nel 2014, che indicava ai giovani iraqeni il dovere di “far parte delle forze di sicurezza” per salvare il Paese dal pericolo del sedicente “califfato” di Al Baghdadi.
Malgrado vari decreti da parte del governo di Baghdad, sia di Nouri al Maliki che dell’attuale Presidente, le armi e la struttura della Forza di Mobilitazione Popolare non hanno consegnato le armi all’esercito iraqeno; e la FMP non ha mai sottoposto la sua catena di comando alla gerarchia delle FF.AA. di Baghdad.
Recentemente, la rete sciita in Iraq è passata dai 4500, che erano stati identificati nel 2011, a ben oltre 81.000 militanti armati, con un aumento sensibile che è avvenuto solo negli ultimi sei mesi.
La rete della Forza di Mobilitazione Popolare è anche utile a Teheran per creare un secondo fronte, più difficilmente controllabile, di lancio missilistico contro Israele, operato unicamente dal territorio iraqeno.
Anche il movimento Hashd al Shaabi, in Libano, è nato nel 2014, come le nuone FMP, ed è un movimento che è collegato, fin dall’inizio, con le brigate iraqene della Forza di Mobilitazione Popolare; e anche con quelle della Brigata Badr e la nuova rete di Asaib al-Haq, sempre collegata alla presenza delle Brigate della Rivoluzione iraniana e, quindi, alla Brigata Al Quds di Soleimani.
Ormai, questa rete, sotto il controllo diretto di Qassem Alì Soleimani, conta oggi almeno 130.000 militanti armati.
In altri termini, Teheran sta sostituendo i suoi proxies in Iraq e in Libano, per evitare la penetrazione avversaria e per lanciare, con nuovi modelli organizzativi e militari, una pesantissima ipoteca su regimi, tra Libano e Iraq, che sono evidentemente alla fine del loro percorso.