“Sto scioperando per voi”, scriveva, appena qualche giorno fa, un prof agli studenti incavolati perché avrebbero saltato una sessione d’esame e forse, in qualche caso, addirittura dovuto rinviare la laurea, con aggravio di spese per i genitori, molti dei quali già stremati dalla crisi oltre che dalle sempre più esose tasse universitarie.
Scioperavano, i prof, per l’adeguamento dello stipendio. E la protesta ci sta pure. Peccato che non scioperassero anche per rendere trasparenti i percorsi accademici e l’accesso alle cattedre su base effettivamente meritocratica. Del resto, solo in Italia, e non a caso, i prof universitari da sempre vengono chiamati baroni, per cui ne consegue che la selezione dei docenti, da sempre, è pratica non proprio democratica, di sicuro di una classe privilegiata. Baronale, appunto.
Stupisce, pertanto, lo stupore – e, mi va di dire, anche l’indignazione di circostanza – ostentato dalla classe politica, con in testa il ministro al ramo, oltre che da alcuni commentatori del giro, allo scoppio dell’ennesimo scandalo sollevato, questa volta, dalla denuncia di un bravo (ma meno protetto) ricercatore invitato – secondo una prassi ormai consolidata – a farsi pazientemente da parte e aspettare il prossimo turno di promozione. “Fate luogo, la dritta è mia”, avrebbe fatto dire il caro don Lisander al raccomandato di ferro del signore di turno. Sapete la storia come finì: in quel caso “con un occhiello al ventre”, nel nostro speriamo non in una bolla di sapone. Un’altra, come la cronaca sempre più spesso ci ricorda.
Che poi, al di là e a dispetto del profluvio di parole spese, in questa come in altre circostanze, a sostegno della tanto decantata meritocrazia, c’è un punto un questa in vicenda che indispone, forse, anche di più. In questa ennesima, ordinaria, storia di italica corruzione, infatti, lo scandalo più insopportabile – mi pare – non è tanto la raccomandazione – pure odiosa, per carità – che penalizza il più bravo, quanto il fatto che all’Università esistano ancora ricercatori la cui età, passati abbondantemente i cinquanta, sarebbe di norma più opportunamente avviata alla quiescenza piuttosto che idonea alla corsa per la conquista di una cattedra. Insomma, non si può essere ricercatori a vita e, magari, anche beffati ad un passo ormai dal traguardo.
Del resto, osservando l’intera filiera della formazione culturale e, più generale della conoscenza scientifica, non mi sembra che le cose vadano meglio ai gradi inferiori del nostro sistema di istruzione pubblica. Il mondo della scuola – hai voglia a dire agenzia educativa – è tutto un susseguirsi di pratiche discutibili quando non illecite: a cominciare dai concorsi per finire al mercimonio dei corsi di aggiornamento utili per scavalcare le graduatorie; dalla gestione delle scuole cosiddette paritarie alle procedure cervellotiche concertate con i sindacati del settore la cui funzione, ormai, è sempre più discutibilmente orientata alla conservazione delle burocrazie interne piuttosto che agli interessi degli iscritti. I quali non a caso diminuiscono di anno in anno, verrebbe da aggiungere.
Insomma, una scuola, la nostra, attenta – e nemmeno tanto, a giudicare dal caos di questi giorni – più ai docenti, ma mai ai discenti, vale a dire, alla classe dirigente del futuro. Ne è prova il vorticoso susseguirsi di riforme che in questi ultimi lustri hanno interessato il settore e che hanno sortito, a me pare, null’altro che un solo effetto: il progressivo smantellamento del sistema pubblico pubblica, orientato il nuovo semmai alla plutocrazia piuttosto che alla tanto decantata meritocrazia. E magari è proprio questo il vero, seppure inconfessato, scopo di tutta questa irresponsabile giostra. Né conta troppo obiettare che, ad esclusione degli Usa, che però offrono ben altre opportunità, non è certo questo l’orientamento seguito da altri e più solidi Paesi.
Sta di fatto che, alla lunga, gli scandali e la pervicace diffusione di pratiche corruttive a tutti i livelli, ormai, lungi dal consigliare una efficace terapia che passi attraverso l’amministrazione di una giustizia certa, giusta e veloce, ha finito col cedere ad una diffusa cultura del sospetto, per cui tutti sono corrotti, indipendentemente dal giudizio di un tribunale. Insomma, tutti colpevoli, fino a prova contraria. E in questo senso, magari anche alla luce di recenti ed “eccellenti” assoluzioni, è stata criticata pressoché unanimemente l’approvazione del Codice antimafia. Una legge che, come si sa, estende anche ai corrotti, appunto, la misura della confisca dei beni.