Della rinnovata verve produttiva della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee è senz’altro una felice testimonianza “Cold Cinema. Film, video e opere 1960-1999”, la maggiore retrospettiva mai dedicata a Gianfranco Della rinnovata verve produttiva della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee è senz’altro una felice testimonianza “Cold Cinema. Film, video e opere 1960-1999”, la maggiore retrospettiva mai dedicata a Gianfranco Baruchello, a cura di Alessandro Rabottini. Realizzata presso la Triennale di Milano, la mostra riunisce, per la prima volta e in modo organico, un’ampia selezione di film e video sperimentali che l’artista ha realizzato sin dai primi anni sessanta del secolo scorso. Quella di Baruchello è una delle pratiche artistiche più singolari e articolate del panorama italiano: sin dalla metà degli anni cinquanta l’artista ha esplorato pittura, installazione, assemblaggio, film, foto, scrittura e suono, ibridando il linguaggio dell’arte con le pratiche dell’agricoltura, dell’antropologia e dell’economia come forme di analisi critica della società dei consumi: “Un tacchino congelato di produzione americana viene fatto a pezzi, sezionato e tritato. L’operatore, nudo, riconfeziona poi il materiale così ottenuto e lo ‘rispedisce al mittente’, dandogli cioè sepoltura in una minuscola bara.” (dal catalogo della mostra). Particolarmente significativo il titolo della mostra “Cold Cinema”. McLuhan diceva che il cinema è un medium caldo, che assorbe l’attenzione dello spettatore concentrando i propri effetti esclusivamente e intensivamente su un senso, mentre freddi sarebbero media come la Tv e il fumetto, che forniscono dati a più bassa definizione e richiedono maggiore partecipazione per completare il messaggio. Raffreddare il cinema, in questo senso, significherebbe innanzitutto metterlo a distanza, inibire l’alta definizione da cui il suo fascino irradia, renderlo meno coinvolgente e più partecipativo, decodificarne il linguaggio e immettervi rumore, appropriarsi del suo materiale e sovvertirne la tecnica (“Baruchello. Il cinema va servito freddo”,Tommaso Isabella, doppiozero.com). Infatti, sin dai suoi esordi, Baruchello ha lavorato sulla dimensione dell’immagine in movimento non come prodotto finitoma come spazio di sperimentazione formale e concettuale. Così come nella sua opera più importante: il film “Verifica incerta”, realizzato tra il 1964 e il 1965 in collaborazione con Alberto Grifi, un’opera basata su un utilizzo radicale tanto di materiale preesistente quanto della tecnica del montaggio e che ha anticipato di anni le pratiche di appropriazione e di campionamento. Il filmè composto dimateriale di scarto cinematografico, oltre 150.000 metri di pellicola proveniente da cinema commerciale americano destinata al macero. Immagini e sequenze provenienti da narrazioni differenti sono accostate in modo da creare sospensioni e inversioni delle sceneggiature originali, con il risultato di ottenere l’opposto del procedimento classico di scrittura filmica. Una “sottile vendetta, un pigro massacro cinematografico”: come definito dagli autori. Nel complesso, un percorso espositivo che esplicita probabilmente la componente principale del percorso artistico di Baruchello, l’estetica del frammento e dell’archivio: Io me ne cibo – afferma l’artista – il frammento è qualche cosa che presuppone tutto quello che è stato frammentato e che non è stato scelto.”