Salonicco 1943, e l’Italia in camicia nera salvò centinaia di ebrei. Nel libro di Pirozzi una storia dimenticata

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Venerdì 25 ottobre, alle ore 18, nella biblioteca di Palazzo Toledo a Pozzuoli, l’assessore alla Cultura del Comune flegreo, Maria Teresa Moccia Di Fraia, gli storici del fascismo, Antonio Alosco, e dell’ebraismo, Ottavio Di Grazia, presenteranno il libro di Nico Pirozzi “Salonicco 1943. Agonia e morte della Gerusalemme dei Balcani”, pubblicato per i tipi delle Edizioni dell’Ippogrifo. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo un’anticipazione del volume

A dispetto del tempo che scorre e degli uomini che dimenticano, per una parte degli abitanti di Salonicco quel villino di inizio Novecento, dallo stile marcatamente neobarocco, l’hanno continuato a chiamare Oikía Salém: la casa di Emmanouíl Rafaíl Salém, il facoltoso avvocato tessalonicese di origini ebraiche che, nel 1907, ne affidò la costruzione a Xenofón Paionídis, uno dei più famosi architetti del suo tempo. Per gli autisti della Oasth, l’azienda di trasporto urbano di Salonicco, che dalle cinque di mattina a mezzanotte passata attraversano Leoforos Vassilissis Olgas, la fermata in prossimità del civico contrassegnato dal numero 20 è, da quarant’anni, Palió italikó proxeneío: il vecchio consolato italiano, che sul finire degli anni Settanta traslocò in una più modesta dimora.
Della sontuosa casa di Salém e di quel lembo d’Italia in terra di Macedonia, carico di storia e di ricordi, oltre al toponimo sopravvive solo un giardino invaso da arbusti ed erbacce e una vecchia palazzina con le persiane semidivelte, le ringhiere corrose dalla ruggine e gli intonaci scoloriti e cadenti, che solo una fervida immaginazione può associare a quel gioiellino di architettura eclettica che, per decenni, è comunque stato. Un immobile talmente fatiscente che, nell’ottobre 2013, Ryan Murphy e Brad Falchuk, i produttori di una fortunata miniserie televisiva statunitense del genere horror, scelsero come immagine per la locandina che pubblicizzava gli episodi di “Coven”.
Eppure, il vero film dell’orrore – non una fiction, ma una vicenda drammaticamente vera, intrisa di dolore e di tanto sangue, con i mostri in carne, ossa e divisa – si girò non lontano da lì. Non più tardi di settantacinque anni fa.
Una storia di coraggio e di umanità, che ebbe per protagonisti degli italiani, e per sfondo la Grecia. Un Paese che conobbe per intero le nefandezze di cui si macchiò l’Italia in camicia nera e orbace, particolarmente nei Balcani. Crimini – manco a dirlo – puntualmente dimenticati o più semplicemente rimossi, per i quali nessuno dei responsabili ha mai pagato.

In foto Nico Pirozzi

Una storia, quella racchiusa nelle stanze del villino di Leoforos Vassilissis Olgas 20, che vale molto di più del milione e mezzo di euro che lo Stato italiano vorrebbe ricavare dalla vendita di Oikía Salém a un “privato”. Anche perché la vicenda legata alla deportazione di 48.286 persone (37.286 delle quali subito finite nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau) in 157 giorni, a Salonicco ebbe a conoscere due parole nuove nella storia della Shoah: “inganno” (quello posto in essere dai nazisti per più di un anno) e “tradimento” (quello perpetrato, secondo molti storici, dal capo religioso della comunità).
Ma, per tornare a noi, cosa accadde di così eccezionale tra le mura del Real Consolato italiano di Salonicco?
Vi furono – per dirla in breve – degli italiani che non si voltarono dall’altra parte, nel momento stesso in cui la stragrande maggioranza dei loro simili fece come le tre scimmiette di shintoista memoria, che non vedono, non sentono e non parlano. Non eroi, ma semmai la migliore espressione di quella categoria di esseri che si chiamano uomini. I loro nomi sono Guelfo Zamboni e Giuseppe Castruccio, i due consoli che si alternarono alla guida della sede diplomatica italiana nel periodo più tragico per gli ebrei della Macedonia. Chiamati a operare sul campo furono invece Riccardo Rosenberg, vice console e ufficiale del Servizio di informazioni militari (SIM), Lucillo Merci, il capitano del Regio Esercito delegato a tenere i contatti con il comando militare tedesco di Salonicco, e non più di una decina fra militari e impiegati dell’ufficio consolare. Furono loro, questo piccolo esercito della provvidenza, i principali protagonisti di una storia di straordinaria umanità, che permise ad alcune centinaia di ebrei – italiani e non – di sfuggire alla deportazione nei campi di sterminio della Polonia orientale. Da quella villa, tra l’autunno del 1942 e l’estate dell’anno successivo, uscirono passaporti temporanei, lasciapassare e almeno 116 falsi certificati di nazionalità “provvisori” che, attribuendo un’origine italiana ad altrettanti ebrei in attesa di essere deportati ad Auschwitz, permise a questi ultimi di raggiungere Atene e i territori sotto giurisdizione di Roma. Un escamotage che, quanto meno, avrebbe causato più di qualche grattacapo a chi l’aveva architettato e posto in essere.
Perché un fascista convinto come Zamboni (prima), e un diplomatico di vecchia scuola come Castruccio (poi), remarono contro le iniziative antisemite dei nazisti, “infrangendo i doveri di obbedienza gerarchica (e mancando di lealtà con l’alleato)”, come sostiene l’ex direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea Michele Sarfatti, non è facile da spiegare. Probabilmente, furono quegli stessi schemi procedurali che, condizionati dalla cultura, dalla morale o dall’esperienza – o più semplicemente dal grado di sensibilità del singolo individuo – si manifestano in presenza di eventi straordinari o traumatici. Difatti, come altrimenti interpretare il lungo silenzio di tanti Schindler che non hanno mai raccontato niente, se non dopo essere stati “scoperti” da qualcuno dei salvati? O, per restare nell’ambito della nostra vicenda, come interpretare la risposta che Zamboni diede al filmmaker statunitense Joseph Rochlitz che, sul finire degli anni Ottanta, l’intervistava per un documentario sui tentativi fatti da italiani in favore dei profughi ebrei in Francia, Grecia e Croazia negli anni 1940-1943? “Di fronte a questa richiesta di umanità, lei cosa avrebbe fatto?” replicò, un po’ stupito, l’ex console.

In foto Villa Olgas, sede del Regio Consolato Italiano di Salonicco in una foto degli anni Trenta
In foto Villa Olgas oggi

In fondo, compiere ciò che aveva fatto era una cosa per così dire “normale” anche per Giorgio Perlasca, il finto diplomatico spagnolo che nella Budapest delle Croci frecciate salvò da un’atroce morte centinaia di ebrei ungheresi. “Scusi, c’era della gente che era in pericolo di morire… bisognava fare qualcosa… Avendo la possibilità di farlo, l’ho fatto…”, ribatté al giornalista Enrico Deaglio l’ex commerciante di bestiame improvvisatosi console.
Cosa assai diversa è domandarsi come fu possibile, per Zamboni e Castruccio – ma anche per Mario Di Stefano e Giovanni Soro (che a Varsavia rilasciarono un imprecisato numero di documenti di rimpatrio in Italia a ebrei che, non essendo italiani, non ne avevano diritto) in Polonia, per Guido Lospinoso (all’epoca dei fatti ispettore capo del “Regio ispettorato di polizia razziale”) in Francia o per il generale Paride Negri (che oppose un netto rifiuto all’evacuazione degli ebrei di Mostar richiesta dai tedeschi) in Jugoslavia – portare a termine operazioni così complesse e compromettenti. Se si escludono le coincidenze fortuite – utili, ma non determinanti – va segnalata la ritrosia dimostrata, fino al settembre del 1943, da una certa parte della gerarchia fascista nei confronti dei provvedimenti razziali e della stessa alleanza con la Germania. A mettere i bastoni tra le ruote dei tedeschi, che miravano ad accelerare i programmi di deportazione nei paesi occupati anche dagli italiani, non sono stati solo gli uomini in divisa (“ovunque penetrassero le truppe del Regio esercito, uno schermo protettore si levava di fronte agli ebrei, che li salvaguardava sia dai lacci del IV b che dai massacri e dalle persecuzioni dei Quisling locali”, sostiene lo storico della Shoah, Léon Poliakov) ma anche quelli con la feluca.

In foto truppe tedesche entrano a Salonicco nell’aprile 1941
In foto ebrei sottoposti a umilianti esercizi ginnici nella piazza principale (Platia Eleftheria) di Salonicco la mattina dell’11 luglio 1942

Figure chiave all’interno del dicastero retto dal genero di Mussolini sono stati il marchese Blasco Lanza d’Ajeta, segretario particolare e poi capo di gabinetto di Ciano, e il conte Luca Pietromarchi, numero uno della Direzione Guerra Economica del Gabinetto Armistizio e Pace (GABAP), che in una riunione tenutasi a palazzo Chigi (all’epoca dei fatti sede del ministero degli Esteri) nell’agosto 1943, ebbe a dire: “[gli ebrei con cittadinanza italiana] li abbiamo trasferiti ad Atene per sottrarli ai provvedimenti razziali che i tedeschi volevano adottare. Non possiamo abbandonarli al loro destino qualora le autorità militari germaniche assumessero tutti i poteri”. Non certo secondario è stato il ruolo svolto dal conte Luigi Vidau, capo dell’Ufficio IV della Direzione Affari Generali, “a cui spettava approvare “discretamente” le iniziative che la rete diplomatico-consolare attuava in Europa a favore degli ebrei”, e – potrà sembrare strano riconoscerlo – anche di Giuseppe Bastianini, l’ideatore e promotore del Tribunale Straordinario della Dalmazia, che Mussolini pose a capo del Governatorato della Dalmazia, mentre Tito voleva trascinarlo davanti a un tribunale per rispondere di crimini di guerra. Sarebbe stato lui – riferisce Salomon Uziel, un esponente di primo piano della Comunità ebraica di Salonicco, nella testimonianza pubblicata in appendice al lavoro di Marco Nozza sulla prima strage di ebrei in Italia – a vergare di proprio pugno la lettera che Uziel, che era anche un informatore del SIM, consegnò a Riccardo Rosenberg e ad Emilio Neri, due ufficiali dei Servizi, nella quale c’era grosso modo scritto di “dare il massimo aiuto agli ebrei in qualsiasi momento in quanto tale politica ci sarà di grande utilità in un prossimo avvenire”.

In foto 7 il capitano delle SS Dieter Wisliceny
In foto Aloise Brunner (a sinistra) e Adolf Eichmann

Ma c’è di più. Lanza d’Ajeta, in particolare, era a conoscenza di cosa si celasse dietro la parola deportazione, avendolo appreso direttamente da un alto funzionario dell’ambasciata tedesca a Roma. Difatti, nell’appunto che, il 21 agosto 1942, era stato recapitato sulla scrivania di Mussolini in merito alla richiesta di “trasferimento in massa degli ebrei di Croazia nei territori orientali”, Ciano non era ricorso a inutili giri di parole per dire come stavano realmente le cose. “[Otto von] Bismarck ha affermato che si tratterebbe di varie migliaia di persone ed ha lasciato comprendere che tali provvedimenti tenderebbero, in pratica, alla loro dispersione ed eliminazione”, si sottolineava nella nota, che proseguiva: “L’Ufficio competente fa presente che segnalazioni della R. Delegazione a Zagabria inducono a ritenere che, per desiderio germanico, che trova consenziente il Governo ustascia, la questione della liquidazione degli ebrei in Croazia starebbe ormai entrando in una fase risolutiva”.
Se per Mussolini il “nulla osta” che aveva scarabocchiato sul documento doveva essere una sorta di lasciapassare al programma nazista di deportazione degli ebrei della Croazia, per alcuni funzionari del ministero di piazza Colonna (dove allora aveva sede il ministero degli Esteri) si trattava di una vera e propria corsa ad ostacoli, per tardare quanto più possibile le operazioni di deportazione (e di sterminio). Sì, di sterminio con il gas. A rivelarlo sono perlomeno due circostanze: la pagina del diario di Pietromarchi datata 27 novembre 1942 e le quattro righe dell’appunto che l’ufficio diretto dal capo della Direzione Guerra Economica del Gabinetto Armistizio e Pace aveva fatto approdare sulla scrivania del duce il 14 novembre 1942. “Il generale [Giuseppe] Pièche riferisce risultargli che gli ebrei croati delle zone di occupazione tedesca deportati nei territori orientali sono stati “eliminati” mediante l’impiego di gas tossico nel treno in cui erano rinchiusi”. Anche in questo caso, un cerchietto a matita e un timbro “visto dal duce” confermano – casomai ve ne fosse bisogno – che Mussolini era a conoscenza della sorte riservata agli ebrei, sin dall’estate del 1942. Sapeva delle deportazioni in Polonia, delle eliminazioni e anche dell’uso del gas per sterminare le vittime.

In foto il rabbino Zvi Koretz in una immagine segnaletica del gennaio 1942
In foto Guelfo Zamboni
In foto Giuseppe Castruccio

Comunque sia, la partita a scacchi che, tra l’autunno e l’inverno del 1942, l’Italia razzista e fascista disputa con la Germania razzista e nazista sulla questione deportazione, non è delle più lineari da trattare. Essa, ricorda Jonathan Steinberg, già responsabile del Dipartimento di storia dell’Università della Pennsylvania, “non è una storia del bene contro il male, ma del “meglio” e del “peggio”, di motivi misti e di azioni ambigue”. Tra i fattori condizionanti, un posto d’onore spetta alla variabile economica. Difatti, maggiore si è dimostrato il peso della componente ebraica italiana in seno all’economia del Paese occupato dai nazisti, più forte è stata la pressione esercitata da Roma sugli alleati per esentare dai provvedimenti vessatori i connazionali. Anche perché permettere ai tedeschi di mettere le mani sugli ebrei italiani avrebbe comportato l’automatico incameramento dei loro beni. Cosa non da poco in paesi come la Francia, la Grecia, la Croazia e la Tunisia, dove gli ebrei italiani non erano proprio degli straccioni.
Terzo ma non secondario aspetto legato alla vicenda Salonicco è quello che riguarda il panorama delle connivenze. Zamboni, prima, e Castruccio, poi, poterono contare, difatti, sulla tacita complicità di una “filiera istituzionale”, che da piazza Colonna, a Roma, si dipanava fino alle più lontane periferie del Regno. Aspetto che ben si evince dall’oramai introvabile pamphlet fatto stampare nell’immediato dopoguerra da palazzo Chigi. Il ministero degli Esteri, si legge nella relazione, “non potendo evidentemente non tener conto delle leggi che erano state emanate in conseguenza della politica razziale, né assumere un atteggiamento di aperto contrasto con le direttive del regime, ritenne tuttavia suo dovere ostacolare come poté nell’ambito della propria competenza l’applicazione di tali leggi e di tali direttive”.

in foto uno dei (falsi) certificati di nazionalità “provvisori” rilasciati dal Regio Consolato Italiano di Salonicco nella primavera-estate 1943
In foto Lucillo Merci

E sempre in tema di complicità e connivenze istituzionali un ruolo di primissimo piano lo rivestì l’ambasciata italiana ad Atene, dalla quale il consolato di Salonicco prendeva ordini. A garantire un energico sostegno – come lo definisce lo storico di origine ceca Saul Friedländer – alle iniziative di Zamboni e Castruccio fu, in particolare, il plenipotenziario del Regno d’Italia per la Grecia, Pellegrino Ghigi. “Le condizioni degli ebrei, come mi raccontava Zamboni, erano da spezzare il cuore. Erano buttati in questi vagoni senz’acqua… Mi è rimasta impressa – racconta Ghigi – la frase di Zamboni: sono cose che mi spezzano il cuore…”. Sostanzialmente le stesse considerazioni che, molti anni prima, il diplomatico italiano aveva riferito per lettera all’amico Luca (Pietromarchi). Cosa che puntualmente rifà anche il 30 aprile 1943, nel pieno delle deportazioni da Salonicco. Il sospetto, più che fondato, è che quanti si trovano a toccare con mano certe brutalità gratuite, come le deportazioni, cominciano a maturare un’idea diversa degli uomini e delle cose, rispetto a chi è rimasto a casa. Lo ritiene anche Antonio Venturini, all’epoca dei fatti primo segretario dell’ambasciata italiana ad Atene. “È stato – asserisce – uno dei motivi che ha accelerato il processo di divorzio tra il regime nel quale abbiamo e, personalmente, ho sempre creduto, e la realtà della politica italiana”.
Già! In tanti come Venturini, Zamboni, Ghigi e Castruccio credettero in quel regime e nell’uomo che ne divenne la sua icona. Peccato però che troppi morti lo abbiano smentito. Tutta gente che aveva capito…, ricordava una vecchia canzone scritta da Francesco De Gregorio
Ma lì, nell’antica casa di Salém di Leoforos Vassilissis Olgas, non c’è spazio per storie che rischiano di tingersi di nero. La memoria che continuano a custodire quei muri scrostati e quei balconi aggrediti da troppa ruggine racconta di una storia di vita che s’è presa gioco della morte. Forse per questo strappa ancora un sorriso. Forse per questo continua a suscitare emozioni, anche in chi quella storia l’ha solo letta su qualche libro.

In foto documento di riconoscimento con stella e numero di matricola, obbligatorio per tutti i cittadini di “razza” ebraica dimoranti a Salonicco
In foto uno dei primi convogli di deportati ebrei in partenza dalla stazione di Salonicco