di Fiorella Franchini
La Shoah non è solo un aspetto terrificante della Seconda Guerra Mondiale ma è un profondo e tragico vuoto di umanità che la razionalità fa fatica a concepire fino quasi a negarlo. Ogni studio, ogni narrazione che prova a raccontarlo è un impegno ad arginarlo e non è mai uno sforzo superfluo o definitivo. Nico Pirozzi, storico e giornalista, descrive in “Salonicco 1943. Agonia e morte della Gerusalemme dei Balcani” – Edizioni L’Ippogrifo – una delle pagine più tragiche del dramma dell’Olocausto. Presentato al PAN di Napoli, ne hanno discusso con l’autore il giornalista Giuseppe Crimaldi, presidente nazionale della Federazione Italia-Israele, e Ottavio Di Grazia, storico delle religioni dell’Università Suor Orsola Benincasa. Il volume ripercorre la sistematica deportazione della comunità ebrea di Salonicco e ne ricostruisce il clima e le caratteristiche. Un saggio sul filo del giornalismo d’inchiesta che ha come teatro la città greca dove, a seguito dell’espulsione dalla Spagna con il decreto di Alhambra nel 1492, si stanziò fino alla seconda guerra mondiale, un’importante comunità ebraica di origine sefardita che per secoli ha costituito la maggioranza della popolazione, condizionando le attività economiche, culturali, amministrative tanto da fare di Salonicco una vera e propria capitale giudaica. Dopo la Prima Guerra Mondiale, nonostante il favore delle autorità greche, diverse circostanze avverse, tra cui un diffuso sentimento antisemita, ridussero notevolmente la percentuale di presenze che, tuttavia, rimase almeno del 40%. Con l’occupazione della Grecia da parte di Mussolini, il nord del paese e Salonicco furono occupate dai tedeschi. Durante il primo anno non venne presa alcuna misura antisemita e questo diede agli ebrei un illusorio senso di sicurezza. La persecuzione vera e propria iniziò l’8 luglio 1942, quando il comandante locale della Wehrmacht ordinò a tutti i maschi tra i 18 e i 45 anni di registrarsi, in vista del loro utilizzo nella costruzione di strade e piste di atterraggio. La registrazione avvenne l’11 luglio: le 9000 persone radunate, però, furono oggetto di angherie e insulti. Le deportazioni cominciarono il 15 marzo 1943 e proseguirono fino al 7 agosto. Quasi cinquantamila persone finirono nei campi di concentramento di Birkenau, Treblinka, Auschwitz. L’indagine di Nico Pirozzi ripercorre quei tragici momenti e tenta di delinearne il contesto mettendo a confronto testimonianze, documenti e il comportamento di alcuni protagonisti. Da una parte la figura del rabbino capo di Salonicco Zevi Koretz accusato di aver tradito la propria comunità o di aver accettato con troppa docilità le direttive naziste, minimizzando i pericoli di quei trasferimenti definiti semplici delocalizzazioni e avallati da falsi certificati di proprietà di case e terre nei paesi di destinazione. Dall’altra l’intenso programma di salvataggio di ebrei, italiani e non, realizzato dai due consoli del regime fascista che si alternarono alla guida della sede diplomatica italiana, Guelfo Zambroni e Giuseppe Castruccio. In mezzo, un’ampia zona grigia fatta di connivenze, inganni, silenzi, indifferenza, eroica solidarietà, quella che non ha razza o religione e consente di “credere nell’intima bontà dell’uomo”. Il libro di Nico Pirozzi, dunque, non è solo una ricostruzione storica, ma soprattutto un resoconto morale in cui le linee della Storia s’intersecano dentro imprevisti scambi di campo, le sfumature della coscienza si rattrappiscano in pieghe e insospettabili andamenti. Primo Levi, ex deportato dei campi di sterminio, fu il primo a individuare e descrivere l’altra faccia del nazismo, quella più subdola e perniciosa, “ quella di coloro che in vario modo e a vario titolo e responsabilità collaborano al funzionamento della macchina di potere, una struttura interna incredibilmente complicata” in cui è difficile valutare il concorso di colpa perché ognuno contribuisce per la sua parte all’esercizio del sopruso, della violenza. Non una giustificazione ma la consapevolezza che le connivenze umane sono un fenomeno reale e angosciante, “esse sono assenti solo nelle utopie”. – Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso – ha testimoniato Hannah Arendt. Il sospetto – ha affermato Zygmunt Bauman – è che l’Olocausto non sia stato un’antitesi della civiltà moderna e di tutto ciò che (secondo quanto ci piace pensare) essa rappresenta. Noi sospettiamo (anche se ci rifiutiamo di ammetterlo) che l’Olocausto possa semplicemente aver rivelato un diverso volto di quella stessa società moderna della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze; e che queste due facce aderiscano in perfetta armonia al medesimo corpo.”. Non è difficile, dunque, rintracciare nell’analisi precisa e mai pedante di Nico Pirozzi le forme insidiose della diffidenza, del disprezzo, del disinteresse proprie dei nostri tempi. Viene da chiedersi inevitabilmente: perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? La storia, con le sue guerre economiche e militari, le stragi, la negazione dei diritti è soltanto un racconto di progetti falliti e speranze deluse? Tutta l’opera di Nico Pirozzi contiene un monito e una speranza, è un recupero attento della memoria, un riannodare paziente dei fili della verità ma rappresenta anche un incessante interrogativo rivolto alle coscienze dei singoli, affinché capiscano e comprendano e vigilino per non lasciarsi sedurre ancora dall’oscurità.