A Roma si continua a ballare mentre la nave affonda

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A circa due mesi dalle elezioni generali il Paese non ha ancora il governo e, prima ancora, un vincitore, né una coalizione, men che meno una maggioranza parlamentare.
Il fatto è che la prima e più logica (nei numeri e nel giudizio degli elettori, almeno) ipotesi di alleanza – vale a dire, l’accordo tra il M5S di Luigi di Maio e la Lega di Matteo Salvini – si è infranta, domenica scorsa, sul risultato del test (così è stato detto e scritto) elettorale delle votazioni per il rinnovo del Consiglio regionale del Molise. Elezioni che sono state vinte – come si sa – dal centrodestra (il candidato alla presidenza, Donato Toma, si è affermato con il 43,7% davanti a grillino Andrea Greco che si è fermato al 38,5) e, all’interno di questo schieramento – ma qual è la novità? – Forza Italia si è affermata primo partito davanti alla Lega. Insomma, i risultati hanno ribaltato il trend del risultato nazionale, riportando il partito di Silvio Berlusconi al centro del ring politico e, dunque, ricacciato indietro il tentativo di ostracismo verso lo stessa compagine e preteso dai grillini come precondizione dell’intesa politica.
Ovviamente, anche in Molise il M5S è stato il partito più votato (31,7%), riportando in media 3 volte in più i voti dei maggiori partiti in competizione. Ma tant’è. Quello che nessuno (o comunque pochi, in verità) ha detto è che il Molise conta appena poco più 310 mila abitanti, un quarto della popolazione della sola città di Milano e meno di un terzo di Napoli.
Ma il fatto ancora più strano è che domenica prossima si vota per le regionali del Friuli Venezia Giulia. Altro test, si dice. E oggettivamente anche più significativo. La regione conta poco più di un milione e 200 mila abitanti e qui la Lega è già data in trionfo (per il candidato Massimiliano Fedriga si prevede una percentuale di oltre il 50%), mentre per FI il ruolo di fanalino di coda, addirittura dietro al Pd che, alla fine, pure l’unico sconfitto di tutte queste tornate elettorali. Dunque, si rimescoleranno nuovamente le carte? E chi può dirlo. Sta di fatto che a Roma, intanto, si discute l’ipotesi di accordo tra M5S e PD. E forse sarebbe anche il caso di pensare ad una modifica della legge elettorale…
Ecco, questo è lo scenario politico che fa da sfondo – questa settimana – ad una serie di notizie economiche non proprio positive, se non addirittura drammatiche, su cui sarebbe bene non poco riflettere, se soltanto la classe politica trovasse il tempo per farlo.
Per cominciare, il governo in carica – per il disbrigo delle pratiche correnti, si dice – ha approvato il Documento di economia e finanza (Def) 2018 previsto dalla legge di contabilità e finanza pubblica, nel quale si dice, tra le altre cose, che il debito del Paese in rapporto al Pil si è stabilizzato e addirittura sceso al 2,3% nel 2017, ma anche che la crescita è confermata all’1,5% nel 2018 e soprattutto che è prevista in rallentamento (1,4%) nel 2018. E si dice pure che l’aumento delle imposte indirette previste dalle norme di salvaguardia in vigore (aumento dell’Iva) è sempre lì che pende come una spada di Damocle, dunque tutt’altro che scongiurato.
Peraltro, il tema delle tasse – certifica l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) – è da sempre la nota più dolente per il Belpaese e, in termini netti, pesa quasi la metà sul reddito pro capite (per il 47,7%). Di più, cresce per i figli e diminuisce per le famiglie. Ma soprattutto, conferisce all’Italia il non esaltante risultato di ritrovarsi al terzo posto nella classifica generale dei paesi per cuneo fiscale e al 17mo per costo del lavoro, con i salari tassati al 31%.
Né conforta sapere che – secondo l’Istat – il Paese sta in ogni caso migliorando, anche se permangono “punti di debolezza”, per cui l’Italia “non sempre è in linea con la media dei paesi dell’Ue e distante dai principali partner, soprattutto con riferimento al Mezzogiorno”. E qui si potrebbe parlare del perverso combinato disposto tra l’insufficiente crescita economica, le tasse sul lavoro e i livelli di occupazione che al Sud denunciano una situazione di vero e proprio dramma sociale. Basti pensare, infatti, che le quattro regioni al di sotto del Garigliano fanno registrare ciascuna un tasso di disoccupazione di quasi il doppio della media Ue con la Calabria al 21,6%, la Sicilia al 21,5%, la Campania al 20,9% e la Puglia al 19,1%.
Per non parlare, poi, della quota delle famiglie che vanno avanti sotto la soglia della povertà. Uno stato di preoccupante indigenza che non risparmia nemmeno il nord. Anzi – ricorda sempre l’Istat – l’intensità della povertà assoluta è più accentuata al Centro Nord (dal 18,0% al 20,8%) che nel Mezzogiorno (dal 19,9% al 20,5%).
Ecco perché è di cattivo gusto, oltre che irresponsabile e pericoloso, continuare a ballare mentre la nave affonda.

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