La Libyan Investment Authority si è spostata, nell’agosto scorso, dai suoi uffici di Tripoli, nella ormai famosa Tripoli Tower.
L’Ente finanziario storico del regime gheddafiano gestisce, oggi, circa 67 miliardi di Usd tra azioni ed altro che sono, in gran parte, congelati a causa delle sanzioni ONU.
Che vanno progressivamente tolte e sostituite con un sistema di controlli di mercato, man mano che l’economia libico trova la sua via.
Proprio ora che, dopo intimidazioni e minacce gravi e spesso armate, la LIA si è spostata altrove, nella più sicura Tripoli Tower.
Ma come nasce e, soprattutto, cos’è oggi la LIA? Il Fondo, che ha alcuni tratti proprio del fondo sovrano tipico dei Paesi petroliferi, nasce nel 2006, proprio mentre le sanzioni economiche e commerciali di UE e Usa contro il regime di Gheddafi stavano lentamente cessando.
Il senso dell’operazione era semplice e razionale, proprio come quello che ha mosso la Norvegia nel creare da tempo il Government Pension Fund Global, ovvero utilizzare i profitti del petrolio per evitare la crisi post-energetica della Libia e mantenere i livelli di vita dei giorni felici.
Investire, quindi, nel proprio futuro post-oil utilizzando il fortissimo surplus generato delle vendite di greggio.
Fin dall’inizio, la LIA ebbe da gestire un portafoglio di oltre 65 miliardi di Usd, ma con tre linee di indirizzo: 30 miliardi di dollari da investire in bonds, hedge funds, poi la finanza di impresa e infine, la liquidità temporanea messa in sicurezza presso la Banca Centrale Libica e la Libya Foreign Bank.
I fondi presenti in queste due banche acquisiranno presto un valore pari al 60% di tutti gli asset della LIA.
Tutte le società che avessero comunque rapporti con i mercati esteri, dalla Libia, entravano nel quadro del fondo di investimento libico.
La LIA ha oggi oltre 552 società controllate.
Non vi sono però documenti che lo comprovino con certezza, non vi sono nemmeno archivi, a tutt’oggi, che sostengano credibilmente i bilanci e le statistiche della LIA.
Dal 2012, non ha nemmeno subìto alcuna azione di auditing.
Non vi erano, né vi sono ora, strategie di allocazione degli investimenti né vi è un piano; l’unico criterio seguito, oggi come ieri, dai manager del fondo è quello di investire il massimo possibile nel più breve tempo possibile.
Il primo audit serio viene infine compiuto dalla KPMG nel giugno 2011, nel calore della battaglia per la sopravvivenza del regime gheddafiano.
Le operazioni con i derivati ad altro rischio, in quel momento, valevano, cosa incredibile per gli altri fondi globali, ben il 35% degli investimenti totali della LIA.
Nel 2009, comunque, le perdite del Fondo libico, arrivavano, secondo le più segrete ma più affidabili fonti, a oltre 2,4 miliardi di Usd.
Cosa succede però nel 2011, dopo la fine di Gheddafi? Come si muovono la LIA e il LAIP (Libyan African Investment Portfolio)?
Nessuna delle due società poteva infatti compiere operazioni di qualsivoglia natura.
Nel solo 2014, le perdite di LIA furono quindi di almeno 721 milioni di Usd.
La LAIP, peraltro, detiene ancora in portafoglio la LAICO (Libyan Arab African Investment Company) che gestisce investimenti, soprattutto immobiliari, in 19 stati africani, con specifiche società collegate in Guinea Bissau, Ciad, Liberia.
Oil-Libya, peraltro, opera ancora da gestore delle reti e da estrattore in almeno 18 Paesi africani.
Inoltre, il fondo libico possiede ancora RascomStar, una rete satellitare e telefonica che connette gran parte dell’Africa rurale.
In ambito LAIP vi è anche la FM Capital Partners LTD, di nuovo, questo, un Fondo di tipo immobiliare.
Ma, fin dalla fine del regime gheddafiano, le linee interne alla LIA e alle altre società si separano: una metà dei manager vuole continuare l’attività secondo le classiche regole della direzione d’azienda, gli altri, ritennero che si dovessero seguire soprattutto i nuovi equilibri politici interni alla Libia.
L’ultimo audit, compiuto da Deloitte, stabilì inoltre che il vero problema del Fondo erano le oltre 550 subsidiaries.
Deloitte verificò inoltre che almeno il 40% di queste società erano del tutto diseconomiche e dovevano essere vendute rapidamente.
In questo mazzo di aziende decotte vi erano, per esempio, le otto raffinerie, una delle quali gestita dalla Oilnvest in Svizzera, che pagavano anche le penali al governo elvetico per evidenti questioni ecologiche.
La raffineria in Svizzera sembra abbia cessato le sue attività nel 2017.
La storica linea di investimento della LAFICO (Libyan Arab Foreign Investment Company) è sempre stata collegata, per molteplici e sottili fili, alla LIA, che ha oggi a disposizione oltre 160 miliardi di Usd, tra petrolio, redditi personali e vecchi investimenti esteri del Raìs, anche questi segnalati solo in parte alle autorità internazionali.
Peraltro, secondo i manager dell’epoca in LIA, le varie società interne al Fondo non comunicavano tra loro e quindi sovrapponevano le loro strategie.
E, quindi, gli interessi delle loro diverse filiazioni politiche.
Nel 2011, poi, emergono, da un vecchio audit indipendente, che le perdite precedenti alle sanzioni che precedono la rivolta, sono di circa 3.1 miliardi di Usd.
Inizia la fine del regime gheddafiano che, secondo la vulgata internazionale, avrebbe accumulato tutti i soldi asportati dalla LIA e dalle sue consociate.
Non è vero, naturalmente, esattamente come non è vero che il “buco” nelle finanze italiane precedenti a “Tangentopoli” sia causato solo e unicamente della voracità della classe politica.
Nei Paesi in cui vi è in azione una guerra psicologica distruttiva e una guerra economica offensiva, questi sono ormai i modelli consueti.
Non a caso, infatti, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU rimuove le specifiche sanzioni contro la Banca Centrale Libica e la Banca per l’Estero della Libia (che non è la LAFICO) in quanto hanno sostenuto le rivolte contro il colonnello Gheddafi, E’ il 16 dicembre 2011.
Arrivano anche le cause della LIA contro Goldman Sachs, nel 2014, operazioni che erano costate alla LIA 1,2 miliardi di Usd, con un bonus per la banca intermediaria di 350 milioni di dollari.
La causa termina nel 2016; e i giudici britannici danno ragione a Goldman Sachs.
Per un risarcimento di 1 milione di dollari. Vi è poi un’altra causa con Sociétè Génerale, che era iniziata nel 2014, e che cessa successivamente ma sempre con la sconfitta, parziale, della LIA.
Per quel che riguarda il budget nazionale del 2018, per esempio, alla Banca Centrale di Tripoli hanno previsto l’importo di 42.511 miliardi di dinari, con questa proporzione: 24,5 in salari e stipendi, 6,5 miliardi per i sussidi sulla benzina, 6,7 per “altre spese”.
Il tasso di cambio del dinaro è, in media, a 1,3 sul dollaro. Ma al mercato nero siamo a moltissimo di meno.
E la spesa pubblica è tutta in sussidi e stipendi, pochissimo sul welfare, l’asso del consenso per il Colonnello Gheddafi, il benessere sociale si può far mettere in atto con una buona stabilità dei prezzi e delle entrate petrolifere, cosa che ora non accade di certo.
Haftar, peraltro, ha conquistato manu militari i siti petroliferi della “mezzaluna petrolifera” libica il 14 giugno del 2018, dopo aver rintuzzato gli attacchi della Guardia Petrolifera di Jadhran, lo storico organizzatore della protezione, in tutti i sensi del termine, dei pozzi e dei terminal.
La condizione per la riapertura dei pozzi e dei siti di stoccaggio e trasporto, secondo Haftar, riguardava la sostituzione del governatore della Banca Centrale Libica Siddiq al Kabeer con il suo candidato, Mohammad Al Shoukri.
Al Siddiq al Kabeer ha affermato che la banca di emissione libica ha perso 48 miliardi di dinari negli ultimi 4 anni; ed ha rifiutato la nomina, da parte, formalmente, del Parlamento di Tobruk, del suo successore, Al Shoukri.
Al Siddiq, peraltro, ha ricevuto gravi accuse, come quella di essersi intascato in una serie di trasferimenti di fondi pubblici libici all’estero.
Haftar ha successivamente attaccato la sede della Banca Centrale Libica a Bengazi per raccogliere, in linea di massima, fondi per lo stipendio dei suoi soldati.
La tensione finanziaria libica attuale è quindi tutta nel nesso tra banche e guadagni dal petrolio, due situazioni largamente critiche, sia nel governo di Al Serraj che in quello di Banghazi e tra le fila di Khalifa Haftar.
Non è certo un caso che il Consiglio Presidenziale abbia deciso di tassare al 183% le transazioni in valuta presso le banche.
Oltre a questa tassa, è stata introdotta la tassazione sui beni importati dalle imprese prima della attuale riforma fiscale, a cui si ricollega la riforma dell’allocazione dei beni di base alla cittadinanza libica.
L’idea è quella di rendere stabili i prezzi e, di conseguenza, rendere accettabile il tasso di cambio tra dinaro e dollaro, altra radice della crisi economica.
I cittadini libici manifestano spesso davanti agli sportelli bancari, che sono costantemente in crisi di liquidità, i prezzi sono fuori controllo e l’instabilità dei cambi nuoce, come è facile immaginare, anche alle transazioni petrolifere.
Ma anche l’area sottoposta al Parlamento di Tobruk e alle Forze di Haftar non sta meglio.
Le autorità bancarie della Libia Orientale, infatti, hanno già messo in circolazione le loro monete, di carta e di metallo, che già in parte sono utilizzate; e che sono state coniate in Russia.
Banconote che sono accettate nell’area di Tripoli, secondo la decisione di Al Serraj fin dal maggio 2016.
Si tratta di 4 miliardi di dinari, con il volto del colonnello Gheddafi e un forte colore di rame.
Secondo le fonti più accreditate, le riserve della Banca Centrale Libica a Bayda, la città che ospita la Banca dell’Est, sono comunque rilevanti: 800 milioni di dinari, 60 milioni di euro e 80 milioni di dollari.
Niente male, per una zona distrutta dalla guerra.
E’ ovvio che la semplice divisione in due della banca centrale, di cui solo la branca di Tripoli è internazionalmente riconosciuta, è alla radice della terribile svalutazione weimariana del dinaro libico che, come sempre accade, si cerca di tamponare con la scarsezza artificiale di moneta circolante.
La quale, come ci ha insegnato Schumpeter, non risolve il problema, ma lo sposta sui beni e i servizi reali, aumentandone la scarsità, sempre artificiale, e quindi anche il costo.
Intanto, la situazione economica dà alcuni segni di miglioramento, visto che i dati del 2017 indicano entrate totali (sempre per il solo governo di Tripoli) per 22,23 miliardi di dinari, di cui: esportazioni di petrolio 19,2 miliardi, tasse 845 milioni, diritti di dogana, soprattutto petroliferi, 164 milioni e il resto delle entrate di 2,1 miliardi di dinari.
Sul piano geopolitico, la tendenza alla partizione della Libia, che sarebbe un disastro anche per i consumatori di quel petrolio e, soprattutto, per la stessa economia libica, dato che lo oil crescent è a metà tra i due stati contendenti, è però la tendenza, di fatto, vincente.
L’Egitto sostiene apertamente Khalifa Haftar e le kabile che lo aiutano.
La tribù Gharyan e molte altre, tra le maggiori, che sono in numero di 140, sostengono ora il Governo di Benghazi, essendo spesso state affiliate, all’inizio degli scontri, a Tripoli e al suo Governo di Accordo Nazionale.
La Tunisia cerca, da sempre, di raggiungere una difficilissima neutralità.
L’Algeria teme fortemente le incursioni dei Servizi turchi degli Emirati e del Qatar nel contesto economico, petrolifero e politico libico, ma lavora soprattutto per limitare la pressione egiziana ad Est.
Le potenze europee sostengono Haftar (la Francia, che gli ha inviato la sua Brigade Action del Servizio fin dai primi combattimenti inter-libici) con l’Italia che invece ricostruisce il suo rapporto speciale, come quello che aveva con Gheddafi, con il governo di Al Serraj, ma con recenti aperture al generale Haftar.
Se si vuole una assoluta equipollenza tra le parti, occorre evitare di fare politica estera.
Inghilterra e Stati Uniti tendono a uscire rapidamente dal quadrante libico, evitando le scelte e non occupandosi delle crisi economica e sociale che potrebbe far innescare di nuovo una guerra, con ancora il jihad a fare la parte del leone, e proprio nello oil crescent.
Non credano, a Washington, che la loro forte autonomia petrolifera, che li spinge anche a vendere all’estero il loro gas naturale, li possa esimere da elaborare una politica che chiuda l’incresciosa fase, da essi stessi posta in atto, delle “primavere arabe”, di cui la caduta del Raìs è parte essenziale.
Oggi, la quota di produzione della Libia nel totale dell’OPEC è di circa l’1%.
Tutti si predispongono all’aumento significativo, che dovrebbe raggiungere quasi i 100 Usd, del barile, nei prossimi mesi.
Se ciò accadesse, e accadrà, l’economia libica potrebbe essere perfino salva, ma certo la corruzione, la sovrapposizione di due amministrazioni finanziarie e di due banche centrali, l’insicurezza politica potrebbero ancora bloccare la crescita economica della Libia.
Per la prossima conferenza internazionale di Palermo, prevista il 12 e 13 novembre, occorrerebbe quindi una linea economica e finanziaria comune tra tutti i partecipanti non-libici, da sottoporre ad entrambi i governi locali.
Forse Haftar non parteciperà, come ha fatto dichiarare a un suo parlamentare di Tobruk, ma certamente non parteciperà Putin.
La presenza di Mike Pompeo è data per certa, ma ci sarà, forse, anche il russo Lavrov.
Certo, la diplomazia italiana, impiccata sul solo pennone della Nave “Europa”, ha perso molto dello smalto che l’ha caratterizzata in Africa e in Medio Oriente.
Intanto, si potrebbe partire con una ipotesi di lavoro sull’economia libica.
Per esempio, a) uno audit europeo per tutte le società di Stato libiche, dell’una e dell’altra parte.
Poi, b) la definizione di un Nuovo Dinaro, di cui dovrebbe essere stabilito il margine di oscillazione per il dollaro, l’euro e le altre principali monete internazionali.
Occorrerebbe anche chiamare alcuni osservatori: la Cina, per esempio.
Poi, creare una autorità indipendente, che dovrebbe essere responsabile verso i governi libici ma anche verso la UE, sulle finanze pubbliche dei due governi libici.
Giancarlo Elia Valori