Un trend attualissimo trova terreno fertile in Campania: la cucina nikkei, fusione tra la sacralità giapponese e la vivacità sudamericana, una storia secolare che unisce due terre diverse e lontane. Napoli, inespugnabile roccaforte della tradizione, in realtà è essa stessa la testimonianza di una cucina fusion, risultato di commistioni culturali, contaminazioni e dominazioni, da sempre aperta al nuovo. Ed è proprio qui che Ignacio Hidemasa Ito, brasiliano di famiglia giapponese, dà linfa alla cucina nikkei, una tendenza del momento.
Ignacio, oggi alla guida di Otoro 81, ha ottenuto le Tre Bacchette Gambero Rosso nella Guida Sushi 2025 e il Premio Speciale “I Maestri del Sushi”, riservato a soli otto professionisti in Italia. Per lo chef nippo-brasiliano, napoletano d’adozione, la cucina è una continua sperimentazione e ricerca, e la perfezione è un’utopia. Tuttavia, per suggellare i recenti successi, presenta la sua interpretazione del “boccone perfetto”: involtino di ventresca con kaibashira, cavolo nero, caviale, pepe sancho, un’unica piccola portata, in cui ha condensato sogni, convinzioni e il suo personale concetto di fusion.
Il cibo, si sa, riflette la storia, e nello specifico, la cucina nikkei porta il ricordo della diaspora giapponese di fine Ottocento e di una seconda immigrazione di massa dopo la Seconda Guerra Mondiale verso il Sud America. Anche se si pensa alla cucina peruviana, che è la più conosciuta, in realtà “Nikkeijin” significa “emigrati giapponesi in terre straniere”. E in particolare, la cucina di Ignacio riporta alla sua terra d’origine: il Brasile, dove il crossover tra le due culture ha dato vita a piatti come ceviche, tiradito, temaki e uramaki. La cucina nostrana si fa sentire con ingredienti come friarielli, puntarelle e carciofi, dove lo chef ricerca soprattutto l’amaro, un gusto che in Italia è stato sviluppato più che in altre cucine e che si contrappone all’acre della cucina orientale, per creare equilibrio. Importante l’uso del pescato locale: scorfani, coccio, triglia, merluzzo e palamita, mentre la filosofia è quella Kaiseki, “la cucina dell’imperatore”, che guida la preparazione, ponendo al centro l’estetica, la stagionalità e la capacità di esaltare ogni ingrediente. Una fusione di elementi, ingredienti, storie e filosofie. A questo proposito, Ignacio commenta: “La stessa cucina giapponese è frutto di contaminazioni stratificate, grazie alla storica capacità di replicare e reinterpretare le pietanze. Ad esempio, il Yakiniku nasce dalla grigliata coreana, il Gyoza di origine cinese e la tempura si ispira alla cucina portoghese. Tutto si può reinterpretare, ma alla base c’è sempre la scelta del pescato, la qualità del riso e la croccantezza dell’alga; tutto il resto è adattamento al contesto e sensibilità nell’interpretare i desideri del cliente.”
Chi crede che la cucina giapponese sia solo crudo, si sbaglia. Con la carne si apre un altro capitolo della sua gastronomia, che per secoli è stata influenzata dallo Shintoismo e dal Buddismo, e quindi principalmente vegetariana. Solo con la revoca del divieto di consumo della carne della Restaurazione Meiji, la famosa carne di Kobe è entrata a far parte dell’alimentazione nipponica. Scientifico anche nelle quantità, Ignacio consiglia un massimo di 50 grammi per apprezzarla al meglio. La pregiata Kobe si cucina “alla robata”, una griglia molto elaborata di origine giapponese. A conferma della grande varietà della cucina giapponese, non mancano piatti di carne: tartare di fassona cruda su ossobuco con salsa orientale, ribs con metodo giapponese, buta no kakuni, “secreto” iberico e gyoza di wagyu.