Per risolvere i problemi la prima competenza è quella di non crearne

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Quadro di Paolo Righi

di Ugo Righi

I problemi non possono essere risolti
all’interno dello stesso sistema
di pensiero che li ha generati
Albert Einstein

Saper risolvere problemi è una capacità che riguarda tutti, quindi la inseriamo nel nostro elenco di competenze che qui sono trattate periodicamente, perché anche in tabaccheria ogni
tanto qualche problema può capitare!
Il termine “problema” è fra i più usati; espressioni tipo: abbiamo un problema, non è un problema, il vero problema è, ecc. sono di uso corrente, ma spesso nascondono significati impliciti molto diversi.
Il punto di partenza di questo mio contributo è perciò la delimitazione dei significati che saranno attribuiti al termine e, conseguentemente, all’espressione problem solving che letteralmente significa “risolvere problemi”.
Normalmente ci troviamo ad affrontare non tanto “problemi”, quanto piuttosto “situazioni problematiche”, caratterizzate da un insieme di aspetti, dove c’è una causa che crea un problema che a sua volta diventa causa di un altro problema e così, via formando “reti di problemi” che in qualche modo richiedono degli interventi per la loro soluzione.
Affrontare una situazione problematica significa prima di tutto capire qual è la sua natura e poi muoversi in coerenza.
Se “qualcosa non va come dovrebbe” ci troviamo di fronte a un vero e proprio “problema” (devianza a causa sconosciuta); in questo caso l’obiettivo del nostro intervento è capire qual è la causa che l’ha generato (fare analisi); questo non significa dire che è risolta la situazione problematica; infatti, questo è solo il primo stadio a valle del quale “occorre fare qualcosa”; l’obiettivo è identificare la scelta più appropriata, ossia scegliere quale intervento mettere in atto.
Questa fase è la presa di decisione che in sostanza rende concreto quello che si è compreso, quindi si elimina la causa o si accetta la nuova situazione o si cambiano gli obiettivi.
A volte sappiamo già perché è avvenuto qualcosa, si tratta “solo” di decidere come porvi rimedio; in altri casi consiste proprio nel capire la causa del problema e una volta chiarito ciò (non “decisione” quindi, ma analisi) l’azione (la decisione) è cosa relativamente semplice.
In altri casi ancora è opportuno ipotizzare che possa esserci un problema e quindi chiedersi cosa “potrebbe non funzionare”; si tratta cioè di un intervento finalizzato a definire come prevenire eventuali criticità (analisi del problema potenziale).
Come affermavo prima essere in anticipo piuttosto che in affanno cambia molto.
Riprendendo le considerazioni sul processo di problem solving è importante distinguere il problema (qualcosa non va come dovrebbe) dal sintomo (fatto che indica l’esistenza di un problema) e dall’effetto (conseguenza del problema).
Ad esempio, in campo medico, è inutile prendere qualcosa per il mal di testa (sintomo) o abbassare la febbre e curare la tosse (effetto) se non si rimuove la causa (a es. bronchite) del problema (malessere).
Il farmacista spesso aiuta a curare solo i sintomi o gli effetti. Il medico fa problem solving e cerca di individuare e rimuovere la causa con una terapia (soluzione) adeguata.
In campo organizzativo (e anche nella vita privata), è importante trovare chi è responsabile del problema. Ma non come “ricerca del colpevole” (pratica molto diffusa) ma come individuazione del ruolo che ha le risorse necessarie per risolvere il problema. Infatti, mentre l’analisi può essere condotta anche da ruoli diversi, la rimozione delle cause rende spesso necessarie risorse (mezzi, competenze, abilità, ruolo formale, ecc.).
Ad esempio, nella vita privata, se devo andare in una riunione e ho l’auto che non parte, potrò forse rimuovere la causa da solo oppure ricorrere al meccanico commissionando un lavoro specifico e non una generica richiesta d’intervento. Anche in un negozio è importante che ciascuno sappia assumersi le proprie responsabilità di fronte ad eventuali problemi, evitando atteggiamenti di onnipotenza (“risolvo tutti i problemi da solo” “meglio che faccia io, voi siete incapaci”) o impotenza (“tanto non ci si può fare nulla”) o delegando ad altri quello che invece deve essere fatto da noi (“tanto ci pensa Giulia”).
Se la scelta è coerente, riusciamo a soddisfare pienamente un bisogno (come, ad esempio, l’acquisto di un bene, la realizzazione di un accordo, ecc…) oppure possiamo risolvere definitivamente un problema (eliminando la causa). Decidere, etimologicamente, deriva da “recidere “, cioè tagliare ( “o di qua o di là “) e occasioni per decidere se ne presentano innumerevoli tutti i giorni, sul lavoro come nella vita privata.
In realtà ne prendiamo continuamente anche per decidere cosa mangiare, come vestirci, ecc.
E’ chiaro che in quest’articolo ci riferiamo a decisioni più consistenti.
Ci sono i decisionisti (quelli che decidono subito, senza perdere tempo ma anche con il rischio di non capire bene) e gli amletici (quelli che rimandano la scelta all’infinito o non decidono mai, i procrastinatori).
Poi ci sono i “fuori tempo”, quelli che decidono o troppo presto o troppo tardi.
L’importanza delle decisioni da prendere dipende ovviamente dal ruolo che si ricopre e per questo si parla di decisioni “strategiche “ e “operative “, di decisioni che possono essere delegate e di altre che devono rimanere accentrate a chi ha la responsabilità più alta per il successo della negozio. Ma ovviamente tutti concorrono e quindi la responsabilità può variare come peso ma non l’importanza che è il cento per cento per ognuno. In ogni caso, nella vita nel lavoro o nella vita privata, l’importanza di una decisione è proporzionale alla gravità delle conseguenze di una scelta sbagliata o tardiva o non presa.
Un altro punto interessante è quello che riguarda le decisioni “apparenti “. Infatti, quando una scelta è obbligata, quando è evidente che delle due strade da prendere una sola è praticabile, non si può parlare di decisione, questa implica la valutazione di scelte. Continuando con l’esempio dell’automobile, ipotizziamo che si riesca a farla partire ma c’è pronto un altro problema (come sappiamo, i problemi non mancano mai). Mentre si sta guidando, a un certo momento il traffico rallenta per poi a fermarsi del tutto. Come affermato, si tratta ora di capire cosa è successo. Se mi accorgo che la causa è che una macchina, poco avanti, ha avuto un problema al motore ma che ora la stanno spostando, allora non faccio altro che aspettare qualche minuto e poi si ristabilirà la norma. Magari vuol dire che, per recuperare il ritardo, non mi fermerò a comprare il giornale. Se invece la causa è più grave perché c’è stato un incidente e ci vorranno ore per risolvere, devo prendere una decisione. Questo è un altro punto importante rispetto alla causa: capire la dinamicità. E’ positiva, nel senso che il problema si risolve da solo aspettando, oppure negativa nel senso che più passa il tempo peggiora, oppure che addirittura non ci possiamo più fare niente: se l’aereo è partito perché siamo arrivati in ritardo, è chiaro che l’individuazione della causa non ci consente di risolvere il problema ripristinando la situazione precedente. Noi stessi, (la nostra approssimazione oppure la supposizione che altri facciano cose che non fanno) possiamo in situazioni organizzative, essere la causa di problemi. Quindi ricordiamocelo: la prima capacità di un risolutore di problemi è di non crearne né a sé né agli altri: è avere una mentalità “preventiva”, anticipatoria. Ognuno ha un suo ruolo e proprie responsabilità, ma tutti sono chiamati a evitare la nascita di problemi determinati da incompetenza o superficialità e sviluppare, invece, dinamiche collaborative di qualità.