Riformare la burocrazia, ci vorranno anni

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Alfonso Celotto, ex consulente del ministro Guidi: Il problema vero? È la mentalità In Italia tutto pare debba esser sottoposto alla legge e quindi facciamo leggi per qualsiasi cosa: ecco perché in 150 anni abbiamo prodotto circa 190 mila leggi ed è praticamente impossibile governare come accade in altri paesi civili. Studiando la storia, va ricordato che questa tendenza è anche retaggio del mito illuministico francese per cui vigeva la necessità di legiferare su tutto. Chi è appassionato di “scontri frontali” potrebbe sintetizzare che siamo arrivati ad assistere al “pragmatismo contro la burocrazia”, al buon senso contro la inutile ridondanza di norme. Anche il linguaggio, complesso e spesso farcito di termini incomprensibili, è tratto distintivo dell’apparato burocratico. La parcellizzazione delle competenze poi rallenta tutto: dovendo intervenire decine di persone di ministeri diversi su ogni cosa la paralisi del sistema amministrativo è pressoché certa. In tale scenario, il Centro studi di Confindustria aiuta a quantificare gli effetti di una burocrazia più efficace. Se la Pubblica amministrazione riducesse la sua inefficienza dell’1 per cento, ci sarebbe un aumento del pil procapite dello 0,9 per cento. Non solo: le aziende a partecipazione estera aumenterebbero gli addetti dello 0,2 per cento rispetto al totale degli occupati del settore privato. Nel recente passato la Commissione Ue ha calcolato che la burocrazia in Italia ha un impatto reale sulla crescita economica di 73 miliardi di euro, pari al 4,6 per cento del pil. Inoltre in Italia non esiste una banca dati pubblica delle leggi. Tutta la Pubblica amministrazione consulta le leggi utilizzando raccolte parziali pagando un abbonamento a editori privati: e nessuno, sinora, è riuscito a colmare questa lacuna. Di tutto questo parliamo con Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato a Roma e, fino a quindici giorni fa, capo dell’ufficio legislativo del Ministero per lo Sviluppo. Un paio di mesi fa è uscito il suo primo romanzo (edito da Arnoldo Mondadori Editore) che ha per titolo “Il dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale” e per tema la burocrazia. Se lavori vieni pagato, se lavori molto bene vieni pagato di più, se non lavori vieni licenziato: professor Celotto, questo sogno meritocratico potrà mai realizzarsi in Italia, paese di corporazioni ed apparati, anche nella Pubblica Amministrazione? Le difficoltà del nostro sistema istituzionale sono proprio nel feudalesimo e nell’appiattimento di ogni meritocrazia. Mi spiego: per anni si è consentito a ciascuna piccola associazione o gruppo di tutelare le proprie posizioni in maniera troppo chiusa, consentendo di arrivare ad un sistema di potere frammentato e tendenzialmente conservatore. D’altra parte la politica legislativa sulla tutela delle condizioni di lavoro nel settore pubblico ha portato ad un appiattimento delle condizioni dei lavoratori e alla assenza di ogni sistema incisivo di valutazione e di incentivo, così da favorire gli appiattimenti e far passare la voglia di lavorare. Tanto a livello stipendiale e di carriera non cambia nulla. La meritocrazia è un obiettivo raggiungibile, ma occorre una operazione pluriennale, che cambi il modo di operare e di pensare delle persone. Non bastano certo due righe di una legge. Quali sono le tre urgenze da affrontare per riformare la Pubblica amministrazione, secondo il punto di vista di un professore di Diritto costituzionale e Diritto pubblico con esperienze di governo come lei? E quali sono le tre cose da evitare di fare? Per riformare la Pubblica amministrazione, occorre una operazione culturale, che modifichi la mentalità dei pubblici impiegati e dei cittadini verso la Amministrazione. Ovviamente una operazione del genere richiede anni di impegno costante. Va affiancata da una operazione di svecchiamento della PA che consenta una massiccia immissione di ragazzi motivati e ben formati. Questo è un punto essenziale. La formazione delle nuove classi dirigenti, mediante una scuola dell’Amministrazione unica e ben organizzata (sul modello francese). Probabilmente serve anche una operazione straordinaria di “uscita” per consentire a tutti coloro che nell’amministrazione non abbiano più voglia di lavorare di uscire con una sorta di “scivolo”. Ma per rispondere specificamente, ci sono tre cose da fare dal punto di vista contenutistico: primo, avviare una operazione di semplificazione seria. Basta con la semplificazione dei procedimenti. Ormai occorre semplificare gli attori, eliminando i troppi interlocutori che allungano e complicano i procedimenti; secondo, avviare una codificazione delle leggi vigenti, per arrivare ad avere soltanto 60/80 codici per materia e, per il resto, leggi temporanee. In ultimo occorre decidere cosa fare del sistema delle autonomie. Troppi livelli di governo. E non basta lo pseudo-svuotamento delle province o un “maquillage” al Titolo V. Bisogna decidere cosa fare con le Regioni, con i troppi comuni piccoli, con gli enti intermedi. Occorre un disegno coerente. Non interventi sporadici. Nel necessario sforzo di riforma verso una Pa moderna, snella ed efficace come affrontare il tema della motivazione dei dipendenti e quello degli incentivi? E come gestire le remore dei sindacati conservatori, ancora troppo spesso legati al rigido approccio egualitarista nelle retribuzioni? Punto fondamentale. Va creato un sistema di valutazione reale. La valutazione è scomoda e complessa da esercitare, ma senza un sistema di valutazione che funzioni è impossibile riconoscere incentivi realmente premianti e si conserva una gran palude di inutile egualitarismo. Con la riforma della PA portata avanti da questo governo, il premier Renzi dichiara “la pubblica amministrazione andrà dal cittadino e non più viceversa”. Quanto è credibile questa promessa ed in che tempi potrà esser realizzata? Come monitorare e pungolare il processo, da cittadini italiani (notoriamente “sudditi” dello Stato burocrate)? Nella riforma, soprattutto nel disegno di legge, ci sono alcuni punti interessanti (come l’eliminazione dell’uso della carta, la creazione di un vero sportello unico), ma se restano episodi isolati, servono a poco. Serve una operazione culturale. Epocale. Si legge sempre che capi dipartimento, capi di gabinetto e capi degli uffici legislativi sono in grado di condizionare l’iter di formazione delle leggi quando non affossarle e ritardarne l’applicazione con decreti attuativi impossibili. Non parte della soluzione, ma parte del problema, quindi? ed il tema della formazione e selezione di queste figure come andrebbe gestito? Oggi è diventato di gran moda parlare male di caste e di gabinettisti. Come se fossero l’origine di tutti i mali. Le dirette collaborazioni dei ministri nascono parecchi decenni fa, in epoca crispina, per consentire ai ministri di contro-bilanciare il potere dei direttori generali. Affiancare al ministro esperti di fiducia consente una migliore analisi e valutazione delle decisioni dell’Amministrazione. Ora, è sicuramente vero che in alcuni casi i gabinetti creano vischiosità, ma lasciare i Ministri, specie i Ministri del tutto novizi, senza una cerchia di assistenti esperti non risolve nulla. Lascia semplicemente i direttori generali padroni della situazione. L’esperienza all’interno della “macchina” statale è stata particolarmente ricca tanto da ispirarle anche un simpatico romanzo sull’incredibile potere burocratico in Italia, con toni che evocano atmosfere tra Kafka e Totò: “Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale”. Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? E che prospettive nel medio e lungo termine? Mi sono divertito molto a scrivere in un racconto le mie esperienze di Amministrazione. La cosa incredibile è che questo racconto l’ho pubblicato in proprio, nel 2011, e poi, grazie a un imprevedibile passa-parola, Mondadori lo ha apprezzato e ripubblicato proprio in questi mesi di grande dibattito sulla riforma della PA. Credo che il “dott. Amendola” sia un romanzo che consente di conoscere il mondo della PA leggendo una storia d’amore, leggera. E penso anche che sia un esempio di Amministrazione positiva, un elogio ai burocrati che lavorano (e ce ne sono).Forse una delle cose più divertenti degli ultimi mesi è che il “dott. Amendola” ha assunto una vita autonoma grazie ai profili twitter (@Dr_CiroAmendola) e Facebook. E’ incredibile, ma in tanti scrivono al dott. Amendola per segnalare disfunzioni, chiedere un parere, avere conforto. Nel “decalogo delle cattive abitudini del pubblico impiegato” secondo Ciro Amendola si descrivono giornate segnate da innumerevoli pause giornale, cappuccino, caffè; da pletoriche riunioni per ostacolare le decisioni da prendere; della costante ricerca del “precedente” per potersi giustificare col classico “si è fatto sempre così” e della ferrea attenzione al fare solo lo stretto necessario. In che misura siamo nel perimetro dei luoghi comuni e non in quello della quotidianità dei disservizi che i cittadini vivono? E quanto il quadro cambia da nord a sud, e perché accade? Purtroppo il mondo della Pubblica amministrazione è incrostato di cattive abitudini pluriennali, per egualitarismo e mancanza di meritocrazia, su cui è facile ironizzare. La situazione è ancora più grave al sud per una serie di questioni storiche a tutti noi ben note, ma non ancora risolte dopo 150 anni dall’Unità d’Italia. Consiglio a tutti di rileggere l’indagine conoscitiva sul Brigantaggio fatta al Primo parlamento italiano dai deputati Massari e Castagnola reperibile su google books. Era il 1863. Si elencavano una serie di problemi oggi ancora irrisolti. Impressionante.


Antonluca Cuoco Salernitano, nato nel 1978, laureato nel 2003 in Economia Aziendale, cresciuto tra Etiopia, Svizzera e Regno Unito. Dal 1990 vive in Italia: è un “terrone 3.0″. Si occupa di marketing e comunicazione nel mondo dell’elettronica di consumo tra Italia e Spagna. Pensa che il declino del nostro paese si arresterà solo se cominceremo finalmente a premiare merito, concorrenza e legalità, al di là di inutili, quando non dannose, ideologie. È nel Direttivo di Italia Aperta, socio della Alleanza Liberaldemocratica e sostenitore dell’Istituto Bruno Leoni. Twitter @antonluca_cuoco