Le crisi finanziarie del 2008 e del 2011 hanno determinato la necessità per i principali istituti di credito italiani di ricorrere a ingenti operazioni di ricapitalizzazione per fronteggiare le perdite derivanti dai crediti deteriorati e per adeguare gli indici patrimoniali ai livelli imposti dalle Autorità di Vigilanza.
Il gruppo Unicredit ha chiuso gli esercizi 2014 e 2015 con un utile netto rispettivamente di 3,7 e 2,4 miliardi di euro e nel primo trimestre del 2016 ha realizzato un utile netto di 406 milioni di euro. La banca riveste un ruolo cruciale all’interno del panorama finanziario italiano, in quanto è azionista di maggioranza relativa di Mediobanca (8,6 per cento) che, a sua volta, è primo azionista del gruppo Generali (12,2 per cento). I principali azionisti del gruppo sono attualmente il fondo sovrano di Abu Dhabi Aabar Luxembourg e la società di gestione Blackrock, con una quota leggermente superiore al 5 per cento, seguiti dalla Fondazione Cariverona e dalla Banca Centrale della Libia (3 per cento circa).
Nonostante gli ottimi risultati reddituali realizzati nell’ultimo triennio, alcuni soci di peso avrebbero sollecitato da tempo la necessità di un ricambio al vertice del gruppo guidato da Federico Ghizzoni, in particolare perché l’Amministratore Delegato si sarebbe sempre opposto con vigore alla volontà da parte di questi ultimi di effettuare un aumento di capitale tra 4 e 9 miliardi di euro al fine di portare i coefficienti patrimoniali del gruppo ai livelli più alti del sistema bancario europeo. Queste voci si sono trasformate in realtà lo scorso 23 maggio quando il manager, al termine di un CdA straordinario, ha manifestato la propria disponibilità a definire un accordo per la risoluzione del rapporto, pur conservando i pieni poteri fino alla nomina del suo successore. Il CdA ha espresso in una nota il forte apprezzamento per la grande competenza e la totale dedizione con cui il dottor Ghizzoni ha guidato la banca in condizioni di mercato estremamente difficili.
Normalmente una società delibera un aumento di capitale per due possibili ragioni: fabbisogno di liquidità per nuovi investimenti o ricostituzione del capitale sociale a causa di una situazione economico/patrimoniale deficitaria. La sottoscrizione di nuove azioni è subordinata al pagamento di un corrispettivo, fissato in base al prezzo di collocamento delle nuove azioni. L’azionista può decidere di sottoscrivere le nuove azioni, oppure può vendere sul mercato il diritto di opzione relativo in modo da compensare la perdita di valore delle sue azioni. Nel caso di Unicredit non ricorre attualmente nessuna delle ragioni sopra esposte per giustificare un’operazione di ricapitalizzazione, per giunta a prezzi stracciati (il valore borsistico dell’istituto è pari oggi a meno di un terzo del corrispondente valore patrimoniale), che genererebbe di fatto un enorme danno per una gran parte dell’azionariato che, non disponendo delle risorse finanziarie per sottoscrivere l’aumento, finirebbe con il subire una perdita permanente di capitale vedendosi costretto a diluire considerevolmente la sua partecipazione. Al contrario, proprio i grandi azionisti potrebbero trarre un enorme vantaggio dall’operazione perché, disponendo di ingenti risorse finanziarie, avrebbero la possibilità di incrementare notevolmente la loro partecipazione al capitale del gruppo (e alla ripartizione degli utili futuri) a un prezzo di borsa che, ipotizzando uno sconto del 30 per cento circa rispetto alle quotazioni attuali, equivarrebbe a una valorizzazione della società vicina al quinto del corrispondente patrimonio. Una volta effettuato il riassetto proprietario, molto probabilmente il prezzo del titolo invertirà la rotta, confermandosi il trend di utili già in essere da un triennio, ma senza la pressione ribassista legata a ipotesi di imminenti ricapitalizzazioni.
Le voci riportate dai principali organi di informazione circa la necessità di un futuro aumento di capitale del gruppo Unicredit, che di fatto stanno alimentando la speculazione sul titolo, potrebbero dunque avere una chiave di lettura più sottile: ancora una volta, proprio grazie alla speculazione favorita dalla colpevole assenza di operatori istituzionali (fondi pensione) in grado di impedire che i corsi borsistici raggiungano “livelli di guardia”, stiamo per servire su un piatto d’argento il secondo gruppo bancario italiano a investitori professionisti di matrice estera.
Probabilmente oggi vi ho raccontato una favola: del resto che senso avrebbe avuto lo scorso 18 aprile distribuire il dividendo (tassato) agli azionisti di Unicredit per poi richiedere loro solo qualche mese dopo una somma di denaro ben più elevata per sottoscrivere un aumento di capitale? Nel caso ciò accadesse, magari formulate questa domanda al futuro Amministratore Delegato di Unicredit.
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