Religione ed emigrazione: Scalabrini, in aiuto degli italiani nel mondo

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Emigrazione e religione sono due parole che spesso e a ragione sono accostate l’una all’altra, e la storia dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti non fa eccezione Emigrazione e religione sono due parole che spesso e a ragione sono accostate l’una all’altra, e la storia dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti non fa eccezione a questa regola. La religione fu parte fondamentale degli inizi della vita nel nuovo mondo da parte dei nostri emigrati, e tale è rimasta anche nel proseguimento delle loro vite e per coloro che sono arrivati in seguito. Il tema è stato recentemente affrontato da  wetheitalians.com, sull’onda del 50esimo anniversario del CSER (Centro Studi Emigrazione Roma), che è un vero punto di riferimento per gli studi delle dinamiche migratorie, un tempo solo in uscita dal nostro Paese, oggi anche in entrata. A dirigerlo da un paio d’anni c’è Padre René Manenti, che l’emigrazione italiana negli USA la conosce bene perché ha passato 9 anni a New York. Lo ringraziamo per questa chiacchierata, e per la sua amicizia. Padre René, il CSER Centro Studi Emigrazione Roma ha compiuto nel 2013 50 anni. Tu lo dirigi da un paio di anni: raccontaci la storia e le attività del CSER Il Centro Studi nacque dall’intuizione di alcuni nostri confratelli scalabriniani. Noi scalabriniani sin dalla nostra nascita ci occupiamo di aiutare gli emigranti, non solo dal punto di vista religioso, ma anche pratico e sociale. Alcuni nostri confratelli capirono che a fianco all’azione c’era bisogno anche della riflessione sui fenomeni migratori, e diedero vita al Centro Studi Emigrazione – Roma. In seguito ne nacquero altri a New York, nelle Filippine, a Basilea, a Parigi, a San Paolo del Brasile e a Buenos Aires. Con il centro di Roma hanno collaborato, nel corso di questi 50 anni, insigni studiosi di primissima qualità: un nome su tutti, quello di Gianfausto Rosoli, forse il più grande studioso di emigrazione del nostro Paese. Questo, oltre al fatto di essere stati tra i primi centri studi sull’emigrazione in ordine di tempo, sia a livello italiano che a livello mondiale, ha dato al centro Studi Emigrazione affidabilità, visibilità e credibilità. I nostri centri studiano l’emigrazione verso i luoghi in cui si trovano, con un focus sull’emigrazione italiana ma in realtà assolutamente senza tralasciare quella degli altri gruppi etnici. Noi qui a Roma nascemmo in un momento in cui c’era poca emigrazione verso l’Italia, e si dedicava per questo quasi solamente agli italiani che emigravano all’estero: ma oggi che c’è molta emigrazione anche verso l’Italia, questa costituisce un aspetto importante della nostra attività. I numerosi studi e ricerche svolti in questi 50 anni sono, insieme a tantissimo altro materiale, parte della nostra biblioteca, che annovera circa 50.000 pubblicazioni: la grande maggioranza di esse è in Italiano, c’è una piccola parte in francese o in portoghese o in spagnolo, e poi qualche anno fa abbiamo assorbito i 15.000 volumi della biblioteca del Center for Migration Studies (CMS) di Staten Island, che si è trasferito a Manhattan ed è oggi diretto da un avvocato, Donald M. Kerwin Jr. Un’altra importante attività da noi curata è quella della nostra rivista trimestrale, “Studi Emigrazione”, che con l’ultima uscita del 2015 arriverà al numero 200 e che, come il centro studi, si è occupata di emigrazione dapprima con riferimento a quella italiana all’estero, e oggi anche molto dei flussi migratori che da fuori arrivano in Italia. Abbiamo poi il sito internet Roma intercultura www.roma-intercultura.it che raccoglie e diffonde notizie legate all’immigrazione e a eventi legate all’intreccio di culture che nasce da questo fenomeno, in tutta Italia e a Roma in particolare. La quarta “gamba” del nostro centro è relativa alle attività che portiamo avanti: eventi, tavole rotonde, progetti, interventi sia su cose organizzate qui da noi, che altrove. Più o meno, tutti i nostri centri sparsi per il mondo hanno questa struttura: a New York come dicevo non hanno più la biblioteca (ma mantengono un archivio storico), però in compenso la loro rivista IMR – International Migration Review è uno dei punti di riferimento mondiali sul tema dell’emigrazione. Prima di dirigere il CSER hai passato 9 anni a New York. Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Quali sono le cose che ti hanno maggiormente colpito? Ho lasciato un pezzo di cuore, a New York. Sono stati 9 anni di esperienza molto bella, durante i quali ho studiato sociologia, facendo sia un master e poi un Ph.D. alla Fordham University nel Bronx, mentre lavoravo con gli italiani soprattutto nel Queens a Whitestone e ad Astoria. Ci tornerò per un mese adesso, ad agosto, e per me è un po’ come tornare a casa, come quando vado a Brescia, dove sono nato e cresciuto: e non solo per la città, che mi piace molto, ma soprattutto per le persone che ho conosciuto, con cui s’è instaurato un rapporto fortissimo, certamente facilitato dal mio ruolo di sacerdote. E mi sono reso conto che stare lì mi ha insegnato a vedere le cose anche con la prospettiva americana, così diversa da quella italiana: col risultato che si è in grado di poter comprendere meglio la realtà (quella americana – o meglio quella newyorchese, solo in parte coincidente con quella americana – ma anche quella italiana) sia perché se ne capisce l’approccio, ma anche perché allo stesso tempo la si può osservare anche con uno sguardo molto differente. Io ora andrò alla parrocchia di San Luca (Saint Luke Church) a Whitestone, nel Queens, dove già sono stato durante i miei 9 anni: lì so che la comunità, grazie al parroco Mons. John Tosi che è molto bravo, ha raccolto nel corso di un paio di anni più di 2 milioni di dollari per sistemare la chiesa, la canonica e un’altra struttura attigua. La chiesa è ristrutturata, ed è stata inaugurata insieme al vescovo della diocesi di Brooklyn/Queens Mons. Nicholas Di Marzio, che ha chiaramente origini italiane (della Campania), anch’egli grande esperto di emigrazione. Questo per dire che la comunità cattolica di quella zona, nella quale molti sono gli italoamericani, è molto legata alla sua chiesa. La zona è benestante, quindi testimonia quanto gli italiani abbiano avuto successo, spostandosi lì dopo che i primi nostri connazionali avevano vissuto a lungo in zone meno ricche. La religione ha avuto un ruolo storicamente fondamentale per gli Italiani emigrati in America: fu il primo fattore di unione tra di loro, di raccordo con il Paese che avevano lasciato, di celebrazione della propria storia e cultura… A Whitestone, ad esempio, una grande percentuale di italoamericani ha provenienza dalla Campania o dalla Sicilia, e ci sono anche diversi club ai quali essi fanno riferimento. Ogni domenica alle 9 c’è la messa in Italiano, e poi ci sono varie altre attività come feste, processioni, e il gruppo di Padre Pio, anche insieme ad un’altra parrocchia nella quale si tiene una messa in Italiano, quella di St. Mel. Quest’anno ad agosto si prevede una grande affluenza per la festa, perché arriverà una copia del quadro originale della Madonna Addolorata del Romitello vicino a Borgetto, un piccolo paese siciliano dal quale moltissimi italoamericani di Whitestone e di Astoria sono originari. E’ importante comprendere cosa possa voler dire per questi italiani avere la “visita” dell’immagine della Madonna del paese dal quale loro o i loro familiari partirono per andare in America: si risvegliano sentimenti, emozioni, fede, affetti, tradizioni popolari, ricordi. E’ una eccezionale, fortissima occasione di partecipazione e di affermazione della propria cultura e della propria appartenenza: si ripete ogni anno, comunque, ma quest’anno con la visita del quadro sarà ancora più importante. All’inizio dell’emigrazione di massa gli italiani si concentrarono tutti nelle stesse zone. Quindi le parrocchie di quelle zone finirono per essere fortemente popolate dai nostri connazionali, in qualche occasione quasi esclusivamente. Gli italiani portarono con loro un modo di vivere la loro religione un po’ diverso da quello degli irlandesi, anche loro cattolici, che arrivarono prima degli italiani. A volte ci fu attrito: ad esempio, secondo me il fatto che i club e le associazioni fossero così fortemente connotati di elementi religiosi era dovuto anche al fatto che a volte, quando gli italiani arrivarono in massa, i parroci non ebbero un atteggiamento di completa apertura. Per esempio, quasi tutte le associazioni finirono per ospitare una statua religiosa, che magari in chiesa per diversi motivi non si poteva o non si voleva ospitare, e che spesso era poi la protagonista della processione che a questo punto assommava elementi di religiosità in contesti in cui le istituzioni religiose del luogo non sempre erano presenti, e non perché gli italiani non le volessero, tanto che finivano a volte per coinvolgere i parroci di altre vicine parrocchie, più disponibili. Quando gli italiani iniziarono ad avere successo e una piccola disponibilità economica, si spostarono in altre zone, allentando la pressione demografica sulle Little Italy: per cui si sparsero in diverse località, distribuendosi su più parrocchie, e limitando molto il numero di quelle nelle quali erano in percentuale così preponderante. Ne sono rimaste alcune, ma non tante come un tempo. C’è da dire anche che l’emigrazione italiana negli Stati Uniti ha visto in grandissima parte coinvolti italiani provenienti da cittadine medio-piccole – più del sud che del nord, a volte paesini, e meno frequentemente dalle grandi città. Quegli ambienti tendenzialmente erano e sono meno secolarizzati delle città, per cui la religione per quegli italiani era molto importante già in Italia. L’esperienza migrante, poi, porta a costruire un’identità in parte in memoria (con quello che lascia) e in parte in contrapposizione (con quello che trova): questo ha portato gli italiani a tenere ben strette le proprie tradizioni religiose, trapiantandole nella loro nuova realtà ma rimanendo abituati a fare riferimento al proprio rapporto con Dio, rimasto costante nel passaggio tra il loro vecchio e il loro nuovo mondo. Tra coloro che aiutarono maggiormente gli Italiani emigrati nell’America protestante, gli Scalabriniani furono tra i più attivi… Mons. Giovanni Battista Scalabrini era il Vescovo di Piacenza, un uomo che sommava in sé un profondo sentimento pastorale con una grande attenzione al sociale. Durante le sue visite pastorali nel territorio della sua diocesi, si accorse che in moltissimi luoghi la popolazione era diminuita, perché in molti erano partiti per emigrare all’estero. Iniziò ad interessarsi al fenomeno migratorio, a studiarlo, e nel 1887 fondò questa congregazione per il servizio e l’accompagnamento degli emigrati Italiani all’estero. Scalabrini era molto amico di Mons. Bonomelli, Vescovo di Cremona, anch’egli sensibile a questo tema: decisero di “dividersi i compiti”, e così Bonomelli si interessò maggiormente agli emigrati Italiani in Europa, mentre Scalabrini si dedicò più a coloro che andarono più lontano. Dopo la seconda guerra mondiale l’ordine dei Bonomelliani fu soppresso, e gli Scalabriniani iniziarono ad occuparsi anche degli emigrati Italiani in Europa. Col tempo il nostro servizio si è esteso in modo naturale a tutti i migranti, non solo agli Italiani: Scalabrini fu il primo a proporre che il Vaticano si dotasse di un ufficio che si occupasse del fenomeno migratorio, nella sua ottica già dall’inizio c’era la visione dell’emigrazione come elemento universale. Oggi non siamo tantissimi, rispetto alle grandi congregazioni: siamo in 700, ma sparsi in tutto il mondo, e ovunque siamo al servizio dei migranti di qualsiasi provenienza e religione, non solo ai cattolici … come dicevo prima l’assistenza che diamo non è solo pastorale ma anche sociale. Siamo stati tra i primi a dare assistenza agli emigrati Italiani in America, e siamo l’unica congregazione con la specifica finalità di aiuto ai migranti, insieme con una nata se non sbaglio in Polonia, ma che è limitata all’emigrazione polacca. Siamo stati fra i primi, ma non gli unici: anche i Salesiani si occuparono dei problemi dell’emigrazione, e poi ovviamente le Cabriniane, l’ordine fondato da Francesca Cabrini, la prima Santa Americana, che era di origini italiane e che collaborò con Mons. Scalabrini. (Da wetheitalians.com)