Rapporti di conto corrente e prescrizione: le novità legislative

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Di Valentino Vecchi *

La prima sezione civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.12977 del 24 maggio 2018, ha inteso meglio precisare i limiti dell’onere probatorio che incombe sulle banche onde far valere l’eccezione di prescrizione del diritto restitutorio reclamato dai correntisti ex art.2033 c.c.
Preliminarmente, appare utile chiarire che la decisione concerne un’azione di ripetizione di indebito promossa dal correntista, ex art.2033 c.c., a seguito della chiusura del conto corrente. Il ricorso in Cassazione, in particolare, risulta presentato dal correntista a seguito della decisione della Corte d’Appello di L’Aquila che, accogliendo l’eccezione di prescrizione formulata dalla banca, aveva affermato che non sussiste in capo alla stessa l’onere di allegare, in modo specifico, gli elementi da cui potesse desumersi l’intervenuta prescrizione del diritto di ripetizione.
La Corte, chiarendo – correttamente – che le rimesse assumono tutte natura “solutoria” laddove annotate su conti non affidati, ha stabilito che “grava sulla banca, a fronte di un rapporto di conto corrente con apertura di credito, l’onere di allegare, ai fini dell’ammissibilità dell’eccezione di prescrizione – e poi di provare, ai fini della fondatezza dell’eccezione – non solo il mero decorso del tempo, ma anche l’ulteriore circostanza dell’avvenuto superamento, ad opera del cliente, del limite dell’affidamento. Tale attività di allegazione, per quanto “attenuata” nella relativa deduzione (e, cioè, senza la necessità di un’allegazione analitica delle rimesse ritenute solutorie), deve, però, comunque recare un grado di specificità tale da consentire alla controparte un adeguato esercizio di difesa sul punto, e, in mancanza, la relativa eccezione deve essere respinta, in quanto genericamente formulata (prima che infondata)”.
Secondo la Corte, quindi, è onere della banca allegare, ai fini dell’ammissibilità e della fondatezza dell’eccezione di prescrizione, non solo il mero decorso del tempo, bensì “che il correntista ha operato in assenza di fido, ovvero superando il limite del fido concesso”.
Riprendendo i più generali principi in tema di onere probatorio, quindi, viene chiarito il concetto di specificità dell’eccezione di prescrizione che, seppur non analitica, dovrà contenere quel grado di completezza che possa consentire al correntista di esercitare il proprio diritto di difesa, dimostrando, a contrario, che il diritto di ripetizione non si è prescritto.
Esposto il percorso argomentativo seguito dai giudici ermellini, appare utile evidenziare che la Corte, pur rilevando che le rimesse annotate su un conto “non affidato” assumono necessariamente carattere “solutorio” – non essendovi alcunché da ripristinare – non chiarisce quando un conto corrente debba considerarsi “non affidato”.
La questione, invero, assume grande rilievo, atteso che unicamente in ipotesi di conto affidato il correntista può provare a respingere l’eccezione di prescrizione spiegata dalla banca, dimostrando che il rapporto si sia sempre svolto entro il limite dell’affidamento concessogli, circostanza cui conseguirebbe la natura “ripristinatoria” delle rimesse annotate in conto. Di contro, laddove il rapporto risultasse sprovvisto di apertura di credito, qualsiasi rimessa annotata in conto nel periodo antecedente il decennio precedente la prima richiesta risarcitoria formulata dal correntista (cosiddetto “periodo ultradecennale” o anche solo “ultradecennio”) assumerebbe natura necessariamente “solutoria” – alla luce di quanto (correttamente) stabilito dalla Corte – e, di conseguenza, non sarebbe soggetta a restituzione seppur concernente il pagamento di competenze indebitamente corrisposte alla banca.
Onde fare chiarezza su tale delicata questione, appare necessario comprendere se un conto possa considerarsi “affidato” unicamente nel caso in cui l’esistenza di una linea di credito risulti provata da uno specifico contratto di apertura di credito regolarmente acquisito agli atti del processo, oppure se l’esistenza del fido possa desumersi dalla disamina dell’ulteriore documentazione prodotta dalle parti in corso di causa (visura della Centrale Rischi, contratti di fideiussione, estratti conto), o addirittura da comportamenti concludendi.
Non di rado, difatti, i giudizi di tal specie hanno ad oggetto rapporti di conto corrente sui quali hanno trovato regolamento linee di credito i cui contratti, però, non risultano acquisiti agli atti del processo. L’esistenza della linea di credito può tanto emergere in maniera incontrovertibile da ulteriore documentazione prodotta dalle parti in corso di causa (visura della Centrale Rischi e contratti di fideiussione), tanto risultare evidente dalle condizioni economiche praticate dalla banca e riportate sugli estratti conto (in ipotesi di conti affidati i tassi di interesse e le aliquote di “commissione di massimo scoperto” (c.m.s.) sono quasi sempre differenziati per utilizzi “entro” ed “oltre” il limite del fido). In tali casi, quindi, la mancanza del contratto di apertura di credito non dovrebbe precludere la possibilità di accertare l’esistenza di una linea di credito regolata in conto, con conseguente necessità di procedere, onde verificare se il diritto di ripetizione dell’attore si sia estinto per prescrizione, alla verifica della natura – “solutoria” ovvero “ripristinatoria” – delle rimesse annotate in conto nel “periodo ultradecennale”.
Differente, ma non del tutto ipotetico, è il caso in cui dalla disamina dell’estratto conto bancario non si rinvengano prove evidenti della concessione di un’apertura di credito – si immagini il caso in cui negli estratti conto non venga mai richiamata espressamente l’esistenza di una linea di credito né vi sia distinzione tra il tasso “entro” ed “extra” fido o tra differenti aliquote di c.m.s. – nonostante il saldo del conto risulti fortemente e costantemente a debito del correntista. In tali casi, l’andamento del saldo del rapporto è sintomatico della concessione – da parte della banca – di un “fido di fatto”, essendo normalmente preclusa al correntista la possibilità di operare “a debito” in assenza di preventiva (anche solo informale) autorizzazione da parte dell’istituto di credito. In siffatte circostanze, in cui non esiste un prestabilito limite di fido concesso al correntista, resta da chiedersi se tale limite non possa essere individuato nella massima esposizione debitoria raggiunta dal conto, sul presupposto – si ripete – che il conto mai sarebbe andato “a debito” se la banca non lo avesse consentito. Tale soluzione, ovviamente, porterebbe a qualificare come “ripristinatorie” tutte le rimesse annotate in conto, con conseguente inefficacia dell’eccezione di prescrizione spiegata dalla banca. Di contro, laddove si ritenesse che l’esistenza di saldi debitori – per quanto consistenti e durevoli – non provi, in mancanza di ulteriori “indizi”, l’esistenza di un affidamento, occorrerebbe qualificare come “solutoria” qualsiasi rimessa annotata in conto. Da ciò discenderebbe l’impossibilità, da parte del correntista, di ottenere la restituzione delle competenze pagate alla banca, ancorché indebitamente, nel “periodo ultradecennale”.

* dottore commercialista
esperto in contenzioso bancario
consulente tecnico del Tribunale
www.valentinovecchi.it