Per leggere tutte le pagine di questo intrigante e originale romanzo di Antonio Franchini sono stato costretto per altri impegni a metterci un mese e mezzo. Un rinvio che mi ha consentito di digerirlo meglio e di approfondire i tanti ingredienti che lo animano, sociali, psicologici, storici, ambientali. I quali ci consegnano una raffigurazione familiare assolutamente indigesta e spesso estranea alla nostra tradizione, specialmente quella meridionale, e che si è lentamente scandita riga dopo riga. Già dall’incipit il lettore è avvertito: “Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza”. Ed è qui che si annida tutto il senso del romanzo e dove l’ammorbare ha una semantica più ampia e che ha a che fare con la cattiveria, l’egoismo, la volgarità, e finanche col tradimento del proprio gene. Così l’autore si fa io narrante e trasforma il lettore in complice. Infatti egli si sente sempre vittima da parte della madre di uno “stillicidio di egoismo e di diffidenza”, e poi conclude: “Ma io che c’entro con questa donna?. “Lei “si impossessa (anche) della vita della figlia, e gliela vive come fosse sua”. Entra e devasta. E ce l’ha avuta anche col marito quando faceva la guerra in Russia. Guerra?: “‘a guerra d’ ‘o lietto” con bielorusse e ucraine.
L’autore ha anche costruito un monumento alla napoletanità grazie a un dialetto effuso in tutti i dialoghi della madre, crudo e crudele, irritante e scabroso, blasfemo e volgare, intrigante e ammiccante, ma anche avverso alle diseguaglianze sociali. Un dialetto che rivendica la propria appartenenza popolare quando da Pulcinella defenestrato da Sciosciammocca se la prende con la borghesia della città: “Chiù ricchi so’, chiù so’ fetienti”. La sua amoralità è anche analoga a quella dei camorristi. È il caso di una madre che, a un figlio “assai preoccupato… di aver messo incinta una ragazza”, suggerisce: “E tu dici ca nun è ‘o tuoio…”. Ma è un dialetto anche indispensabile per tratteggiare il carattere e la negatività di una donna che, pur essendo stata carnale e sensuale, pur avendo avuto tre parti e tre aborti e pur vantando la propria “fessa”, si trova a malpartito con chiunque, a partire dai propri figli. Spartita e vissuta più a Milano che a Napoli, questa “parlata” presume (forse non a torto) di essere l’orgoglio di un nuovo esperanto: da una parte, convive col compiacimento dell’autore verso una lingua dal pedigree aristocratico (vindaloo, masala, ottativo, potnie, apostrofe, endiadi, imenei, Mani, oblativi, ctonie) e, dall’altra, condanna quel fastidioso mélange tanto alla moda di imbastardire col ricorso all’inglese la nostra lingua. Da leggere. (pat)
Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro, Marsilio, Pag. 224, € 18
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