Quando i Radicali sconfissero la Russia

201

Sanzioni, fu Putin a chiederle contro il partito di Pannella. Il racconto di Perduca L’annessione russa della Crimea ha scosso le nostre convinzioni sull’ordine mondiale, formatesi dopo il 1989. Avevamo pensato che la Russia fosse un “predone in declino”, o un “aspirante partner”. Avevamo immaginato che la Russia e l’Europa condividessero l’interesse all’integrazione economica che avrebbe reso l’alterazione forzata dei confini europei un cupo elemento del passato. Tutte queste illusioni sono state ridotte in frantumi. Le nuove strategie nelle relazioni internazionali degli Stati rifanno quindi i conti con alcuni valori di riferimento – libertà democratica, unità dell’Europa – che spingono verso una direzione; così come con gli stretti legami economici e la dipendenza energetica tra alcuni Stati – che spingono verso quella opposta. La Crimea non è il solo evento che ci porta a cercare di capire che tipo di orientamento avremo. Con la proclamazione di un califfato terrorista ai confini di Siria e Iraq, la dissoluzione dell’ordine mediorientale creato dall’accordo Sykes-Picot nel 1916 sta avendo luogo proprio davanti ai nostri occhi. Scriveva Hannah Arendt nel 1971: “Se la gandhiana strategia della resistenza non violenta, così potente ed efficace, si fosse scontrata con un diverso avversario – la Russia di Stalin, la Germania di Hitler, oppure il Giappone di prima della guerra, anziché l’Inghilterra – il risultato non sarebbe stato la decolonizzazione, ma il massacro e la sottomissione”. Uno splendido spunto di riflessione ce lo offre un nuovo libro. “Operazione Idigov, quando i Radicali sconfissero la Russia di Putin” che sembra il titolo di un giallo, popolato di spie. E di cattivi. Ed è proprio così. Ma non è una storia inventata. Siamo nel 2000 e Putin ha rilanciato alla grande la sua guerra in Cecenia, che lo farà diventare da semi sconosciuto ex tenente del Kgb a presidente pluridecennale della Russia. E così bisogna eliminare chiunque osi ricordare che quella guerra in Cecenia, quella vittoria militare è stata caratterizzata da pesanti violazioni dei diritti umani. Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale è affiliato al Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite dal 1995. Negli anni i Radicali sono riusciti a mobilitare con successo l’opinione pubblica e i governi di mezzo mondo nel perseguimento di obiettivi di rilevanza globale come la creazione dei tribunali ad hoc per la ex Yugoslavia e il Ruanda, l’istituzione della Corte penale internazionale, la proclamazione di una Moratoria Universale della pena di morte e la messa al bando delle mutilazioni genitali femminili. Il “caffè liberale” di oggi è con l’ex Senatore Radicale Marco Perduca, e partiamo da due riflessioni preliminari, non solo attualissime, ma discriminanti per interpretare i diversi approcci nelle relazioni internazionali a cui assistiamo nel mondo: E’ possibile continuare a intrattenere rapporti politici ed economici con stati autoritari perché li si ritengono partner essenziali nella ricerca della sicurezza, anche energetica, e della stabilità mondiale? Innanzitutto credo che, onestamente, occorra chiederci se in effetti sia davvero così necessario ritenerli partner veri e propri e capire se essi siano veramente essenziali per raggiungere gli obiettivi per cui li si coinvolgono. Troppo spesso le democrazie occidentali, mi scuso per questa terminologia da Guerra Fredda, piuttosto che agire di concerto perseguono alleanze a macchia di leopardo continuando ad anteporre la propria Ragion di Stato allo Stato di Diritto. Si continua quindi a preferire un approccio ottocentesco basato sull’interesse nazionale piuttosto che agire nel pieno rispetto, interno ed esterno, degli obblighi internazionali che derivano dall’aver ratificato decine di trattati internazionali in materia di diritti umani. Con quali strumenti coinvolgerli nel rispetto dei loro obblighi internazionali relativamente ai diritti individuali e le libertà civili fondamentali di ciascun essere umano? Tre mi paiono le possibilità: la via diplomatica, la via politica e la via giurisdizionale. La prima è la più classica e, se vogliamo, la meno difficile. Senza nulla togliere alle qualità della diplomazia e dei diplomatici, e gli italiani quando vogliono non son secondi a nessuno neanche in questo campo, la via diplomatica è quella che cerimoniosamente coinvolge alleati e avversari nel tentativo di non andar contro gli interessi di tutti, o meglio, nel tentare di non andar contro i legali e legittimi interessi di tutti. Molto spesso i limiti dell’agire diplomatico son creati da problemi politici tra Stati, da interessi contrapposti che derivano dalla famigerata Ragion di Stato che ci ha portato a decine di conflitti mondiali negli ultimi 100 anni. La via politica dovrebbe esser quella che, come accennato, consente la creazione delle coalizioni di governi che, forti della condivisione di principi universali, si alleano per affermarli con le armi della politica, e cioè il confronto, lo scontro, le decisioni in seno alle organizzazioni internazionali, le sanzioni – in ultima istanza anche con l’uso della forza. Quando anche la via politica dovesse rivelarsi inefficace, oltre all’uso legale della forza, anzi preferibilmente prima di ciò, esistono altri meccanismi che possono esser attivati e che prevedono la sospensione da assemblee e/o organizzazioni internazionali o regionali fino ad arrivare alle giurisdizioni di Corti per i diritti umani o la Corte Penale Internazionale. Se questi sono gli “strumenti” che esistono, quel che raramente però si registra è la volontà politica perché dagli annunci, dalle minacce, si passi ai fatti… “Operazione Idigov” racconta come, nella primavera del 2000, la Federazione russa di Vladimir Putin chiese l’espulsione del PR dalle Nazioni unite per aver fatto parlare davanti alla Commissione diritti umani di Ginevra il parlamentare ceceno Akhyad Idigov. Qual è la principale lezione che il libro testimonia? In Inglese esiste il modo di dire “if there’s a will, there’s a way”, una sorta di “volere è potere”. Direi che se di lezioni si tratta, io parlerei piuttosto di messaggio, è una revisione internazionalizzata del motto di Ernesto Rossi “fai quello che devi accada quello che può”: se ritieni di esser nel giusto e conosci la Legge, e i regolamenti, e ti dedichi interamente all’impresa è probabile che tu possa farcela anche se il tuo avversario è un membro permanente del Consiglio di Sicurezza. Come riuscirono i radicali (in primis Lei e Mecacci, impegnati al Palazzo di Vetro di New York) ad ottenere una maggioranza di voti capace di respingere la richiesta di espulsione avanzata da uno degli stati più forti alle Nazioni Unite? L’impresa fu difficile per vari motivi: le accuse della Federazione russa andavano dal sostegno al terrorismo ceceno alla vicinanza con le narco-mafie al condono della pedofilia. L’organo delle Nazioni unite dove si svolse il dibattimento era, è, composto da 19 paesi eletti su rappresentanza regionale (quindi non sulla base di principi di democraticità o rispetto dei diritti umani dei vari governi); questi 19 Stati fungono da accusa, difesa e giuria e adottano le loro decisioni a maggioranza, senza acquisire prove delle accuse né elementi a discarico forniti da eventuali “periti indipendenti”. La procedura è molto vaga e scontava un unico precedente, tra l’altro a noi contrario. Occorreva quindi trovare una sponda governativa che agisse in piena concordia col Partito Radicale ma, allo stesso tempo, sfruttare a nostro favore alcune delle aleatorietà procedurali evitando di creare precedenti negativi per il futuro. In tutto questo, purtroppo, la guerra in Cecenia, che a giugno 2000 fu dichiarata definitivamente vinta da Mosca, scomparve dal dibattito al Palazzo di Vetro. Ben preso le regole di procedura delle risoluzione che normano la presenza e il comportamento delle organizzazioni non-governative all’interno delle Nazioni unite divennero il vero motivo del contendere. Fummo fortunati che la Francia fosse presidente di turno dell’Unione europea, e membro del Comitato sulle ONG, e che Germania e USA si unirono da subito a Parigi nel rispedire al mittente le accuse dei russi. Il clima, come notò un diplomatico cubano, era in effetti da ritorno alla Guerra Fredda. Pur avendo giocato nel modo migliore possibile tutte le nostre carte ed esser riusciti, in fase preliminare, a far diminuire l’entità delle richiesta di punizione, il voto al Comitato fu perso. Ci rifacemmo poi in seno al Consiglio Economico e Sociale, l’organo da cui il Comitato dipende e che ne ratifica le decisioni, dove la raccomandazione di sanzione adottata a maggioranza dai 19 fu rigettata con tre voti di scarto. Cosa succederebbe oggi se un altro Stato membro delle Nazioni Unite attivasse nuovamente la procedura di sanzione nei confronti del Partito Radicale? E’ già successo nel 2002, quando la Repubblica socialista del Vietnam chiese la sospensione del Partito Radicale perché aveva fatto parlare Kok Ksor, del gruppo etnico Degar, meglio noto come Montagnard degli altopiani centrali vietnamiti, davanti alla Commissione Onu sui diritti umani di Ginevra. Il procedimento, completamente diverso, si protrasse per oltre due anni e fece tesoro dei precedenti fissati da noi nel 2000. Nell’ottobre del 2004 la richiesta di sanzione del Vietnam venne rigettata con due voti di scarto. Da allora nessuno ha più presentato formale querela contro il Partito Radicale. Nel 2005, l’Iran minacciò ritorsioni per un intervento pronunciato da un iscritto Radicale di origine Ahwaza, la minoranza araba che vive a sud dell’Iran, che poteva esser inteso come a favore della secessione del Kuzestan dalla repubblica islamica – il tutto risolse con un paio d’incontri informali. Nella primavera del 2013 la Cina non gradì il fatto che il Partito Radicale avesse ospitato al Consiglio ONU sui diritti umani una conferenza assieme a tibetani, uiguri, taiwanesi, falungong e dissidenti cinesi esuli. Una lettera di Marco Pannella ha scongiurato l’apertura della procedura di sanzione ma, il 23 settembre scorso, il Partito Radicale ha presentato a Ginevra un documento sulle violazioni dei diritti umani in Tibet. Pechino ha inviato una delegazione per controbattere in diretta a quanto detto ma dubito che sia bastato. Il Partito Radicale resta quindi un sorvegliato speciale all’interno delle Nazioni unite, anche perché comunque non ha mai cessato di denunciare le violazioni dei diritti umani in Cambogia, Bahrein, Siria, Libia, né tantomeno di criticare i fallimenti del proibizionismo sulle droghe. Nella primavera del 2000 l’assassinio di Antonio Russo è cronaca recente mentre Anna Politkovskaja perderà la vita sei anni dopo: si tratterà di un’esecuzione. Oggi, nel 2014, le voci libere russe quante sono ed in che “stato di salute” sono? Come possiamo sostenerle? E cosa serve evitare di fare? Tanto Antonio Russo quanto Anna Politkovskaja son stati uccisi perché al loro lavoro di reporter di guerra aggiungevano un giornalismo d’inchiesta relativo alle condotte criminali dei belligeranti. Antonio stava lavorando a un libro bianco sull’uso delle armi chimiche da parte dell’armata rossa in Cecenia, Anna faceva nomi e cognomi di chi attaccava i civili nel Caucaso e i loro mandanti moscoviti oltre che delle trame di potere che creavano il terrore in Russia. Col passare degli anni, e il rafforzarsi della reggenza di Vladimir Putin, per via legislativa tanto quanto a seguito di politiche sempre più restrittive, possiamo dire che oggi le voci libere, e in libertà, della dissidenza intellettuale russa si contano sulle dita di una mano. Un paio d’anni fa migliaia di persone sfidarono il rigido clima moscovita, e gli “inviti” della polizia a desistere, per denunciare la zarizzazione della Federazione russa. Sebbene le manifestazioni si svolsero pacificamente e con grande partecipazione niente è cambiato. Anzi, se possibile, la situazione è notevolmente peggiorata. Putin e i suoi son diventati capacissimi nella manipolazione delle informazioni che li riguardano e usano il loro sconfinato potere politico e peso economico in modo prepotente contro chiunque, dentro e fuori la Russia, osi criticarli direttamente o indirettamente. Certo ogni tanto la situazione sfugge di mano come nel caso delle Pussy Riot, oppure tale e tanto è patente l’intervento sulla giustizia che gente come Khodorkowsky o Navalny alla fine vengono rilasciati, ma le voci libere della Russia, se e quando parlano, possono raggiungere più facilmente il mondo che i concittadini dietro l’angolo. E non passa giorno che un incidente stradale o una qualche strana malattia non decimino i critici. Va anche detto che la mancanza di coordinamento, o magari di sincere e genuine intenzioni politiche, hanno fatto sì che dietro a personalità di fama planetaria come Kasparov non sia mai nato un movimento capace di attrarre o coalizzare tutti gli anti-putiniani. L’aiuto che si può dare è continuare a parlarne, far conoscere la natura del regime e, là dove possibile, esigere che i nostri governi rispettino i proprio obblighi internazionali ogni qual volta entrano in relazione e/o affari con la Russia. Allo stesso tempo ogni aiuto diretto o indiretto, anche in termini economici, alla dissidenza russa può esser utile. L’ex ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu – John Bolton – soleva dire che se il Palazzo di Vetro perdesse 10 piani, nessuno se ne accorgerebbe: il pluridecennale dibattito sul funzionamento delle Nazioni Unite come va interpretato oggi, nel XXI secolo, quando è in corso la guerra al terrorismo globale? Quali ritiene siano le tre principali riforme da intraprendere? Anche per evitare di avere casi come la Libia di Gheddafi nel consiglio Onu per i diritti umani? Pochi sanno, o voglion ricordare, che i dipendenti delle Nazioni unite, e parlo di un’organizzazione presente in tutto il mondo, non son nulla rispetto ai dipendenti pubblici di una grande regione italiana! Il problema non sono nel Nazioni unite in sé, che comunque potrebbero esser meglio organizzate e il cui lavoro potrebbe esser maggiormente coordinato, ma chi prende le decisioni politiche: il Consiglio di Sicurezza. Fino a quando i seggi di quel consesso non saranno occupati da democrazie, non potremo che esser confrontati da certe (non) decisioni. Paradossalmente la guerra al terrorismo è l’unico argomento sul quale tutti si trovano d’accordo perché, ahinoi, è un argomento che consente a tutti gli Stati membri dell’Onu di individuare i propri terroristi di “riferimento” e quindi utilizzare le decisioni prese all’Onu per perseguire le proprie agende a livello nazionale contro i ceceni, gli uiguri, ecc ecc e giustificare la sospensione delle libertà civili, dove esistono, per il bene supremo della sicurezza nazionale. Occorrerebbe che all’interno dell’Onu le famigerate “democrazie occidentali”, che a questo punto son molte di più dei tempi della Guerra Fredda, penso in particolare ad alcuni paesi africani oltre che a buona parte dell’America Latina, si alleassero per eleggere presidenze di comitati e commissioni o alti commissari tra personalità note per le loro attività a favore dei diritti universali codificati nella Carta delle Nazion unite e non sulla base di rappresentanza regionale. Il problema del funzionamento dell’Onu sta nella ricerca consensuale del mandato da conferire alle varie agenzie o missioni, ed è lì che spesso risiede il problema. Una coalizione di democrazie avrebbe eletto al Consiglio dei diritti umani il Marocco alla Libia, magari anche per un secondo mandato in barba al criterio di rotazione. Fino a quando gli Stati membri non saranno tutti democratici credo che la miglior riforma sia mantenere le cose come stanno. Può sembrare un controsenso ma immaginare un Consiglio di Sicurezza dove USA, Francia e Regno unito non abbiano o un seggio o li potere di veto sarebbe la peggiore delle riforme possibili. Alcuni pensano che l’annessione della Crimea sia il primo passo verso la restaurazione dell’impero sovietico: questa prospettiva è realistica? E come può esser scongiurata? Mi pare che se qualcuno la pensi così non s’è reso conto che nel frattempo la Russia, contro ogni norma di diritto internazionale, s’è annessa una porzione di uno Sato sovrano! Si è consentito che Mosca agisse in modo prepotente e contra legem senza agire immediatamente, anzi prima che il “referendum” si tenesse. Oggi scongiurare quanto fatto a marzo scorso mi par piuttosto difficile, almeno fino a quando Putin sarà in giro. Io credo che Putin possa continuare a tirare la corda ancora per qualche anno, forse un paio, dopodiché quella corda non potrà che spezzarsi. Pur sperando che nei prossimi mesi si possano alleviare le sanzioni alla Russia, a seguito di cambiamenti sostanziali di atteggiamento da parte di Mosca, penso che la prepotenza putiniana resterà – il tipo è ancora molto giovane. Francis Fukuyama ci disse che la storia aveva avuto termine nel 1989. La storia, ovviamente, non ha mai fine, ed il confronto che aveva plasmato la storia del secolo scorso, fra capitalismo e comunismo, ora pare assumere diverse forme. E’ con l’autoritarismo mercantilista che le democrazie liberali occidentali devono ora misurarsi? Ed in che modo vincere la sfida? Chiaramente la storia è infinita, ma QUELLA storia è finita simbolicamente con la caduta del muro di Berlino. Tra il 1989 e il 1992 i vincitori della Guerra Fredda, mi scuso per la semplificazione, hanno perso l’occasione, che capita di rado, di poter far progredire l’umanità verso un futuro migliore dopo decenni insanguinati. In quegli anni sì, sarebbe stato necessario “esportare la libertà e la democrazia”, ampliando a piè veloce i confini politici e legali dell’Unione europea lanciando, di concerto con Washington, un mega-piano Marshall per condividere la possibilità del perseguimento della felicità individuale con milioni di persone che erano vissute all’ombra della stella rossa. Io credo che se ciò fosse stato fatto con fermezza e decisione, le ripercussioni positive sarebbero andate ben oltre le ex repubbliche sovietiche – non dimentichiamo che Tien Ammen è del 1989 e che la libertà, specie se esercitata con responsabilità, quindi con l’impegno di non limitarla esclusivamente a se stessi, è veramente contagiosa. Un impegno deciso delle democrazie nella promozoine dello Stato di Diritto e dei diritti umani avrebbe successivamente potuto “invadere” anche il Golfo persico o l’Africa sub-sahariana. Oggi è tutto molto più complesso e complicato dal fatto che, ferma restando la prepotenza di Putin, gli occidentali non riescono ad affrontare con una voce o approccio unici la sfida con la Cina. Pechino s’è espansa con le buone in mezza Africa, mentre invece in Asia ha un atteggiamento molto più aggressivo coi vicini tipo Giappone e Vietnam. Oggi occorre rafforzare sempre più l’asse trans-atlantica ma puntando al Pacifico. Allo stesso tempo occorre che le democrazie liberali tornino a essere attrattori di talenti e speranze, questo vale ancora per gli Stati uniti,che per quanto riguarda la ricerca, la tecnologia e il lavoro restano un magnete, ma anche per gli europei. Se dovessimo guardare alle politiche relative all’immigrazione, che è un misto di assistenza umanitaria e apertura socio-economica, non mi pare che si sia all’altezza delle sfide attuali.


Antonluca Cuoco Salernitano, nato nel 1978, laureato nel 2003 in Economia Aziendale, cresciuto tra Etiopia, Svizzera e Regno Unito. Dal 1990 vive in Italia: è un “terrone 3.0″. Si occupa di marketing e comunicazione nel mondo dell’elettronica di consumo tra Italia e Spagna. Pensa che il declino del nostro paese si arresterà solo se cominceremo finalmente a premiare merito, concorrenza e legalità, al di là di inutili, quando non dannose, ideologie. È nel Direttivo di Italia Aperta, socio della Alleanza Liberaldemocratica e sostenitore dell’Istituto Bruno Leoni. Twitter @antonluca_cuoco