Processi lumaca, la mini-riforma della legge Pinto

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Con la legge di stabilità per l’anno 2016 (art. 1, comma 777), il legislatore interviene a riformare la disciplina dell’equa riparazione per eccessiva durata del processo, ridefinendo nozione, presupposti e modalità operative (determinazione del quantum e liquidazione) dell’istituto.
L’intento dichiarato è quello di razionalizzare i costi pubblici conseguenti alla violazione del termine di ragionevole durata dei processi.
La mini-riforma della legge Pinto si snoda lungo tre linee direttrici: 1) individuazione di una ineludibile correlazione tra il diritto all’equa riparazione ed il comportamento processuale tenuto nel giudizio di cui si lamenta la irragionevole durata; 2) previsione di presunzioni di insussistenza del pregiudizio risarcibile; 3) rimodulazione (verso il basso) delle forchette edittali per la quantificazione dell’equa riparazione e razionalizzazione dei procedimenti di liquidazione.
Quanto al primo aspetto, vero e proprio elemento qualificante della novella, il diritto all’equa riparazione viene inscindibilmente connesso alla proposizione, nel giudizio presupposto, dei rimedi preventivi di cui al nuovo art. 1-ter della l. n. 89 del 2001 (art. 1-bis, comma 2), tant’è vero che, già sul piano definitorio, tale diritto spetta a chi “pur avendo esperito i rimedi preventivi (…)ha subito un danno a causa dell’irragionevole durata del processo”.
Dal punto di vista tecnico, l’interazione tra “il diritto a esperire rimedi preventivi” (art. 1-bis, comma 1) e quello al risarcimento del danno da eccessiva durata del processo (art. 1-bis, comma 2) viene realizzata (art. 2) attraverso la comminatoria della inammissibilità dell’azione a carico del soggetto che, pur lamentando l’irragionevole durata del giudizio di cui è parte, non si sia attivato, a suo tempo, attraverso l’esercizio di rimedi “acceleratori”.
Ciò implica che la qualificazione dell’esperimento dei rimedi preventivi come “diritto” è corretta se si guarda al processo presupposto; ma, guardata dalla prospettiva del giudice che accerta il diritto all’equa riparazione, l’attivazione dei rimedi preventivi rileva piuttosto, in senso lato, come onere della parte, dal cui mancato assolvimento consegue l’inammissibilità della domanda in tale sede proposta.
Si tratta di una tecnica già sperimentata dal legislatore, ma il caso in esame ha delle peculiarità.
In altri casi, infatti, il legislatore ha previsto che il comportamento tenuto (o meglio non tenuto) in un processo può rilevare in altro processo, distinto dal primo: si pensi alla valutazione operata, ex art. 30, comma 3, c.p.a. dal giudice amministrativo quando conosce della domanda risarcitoria “autonoma” – cioè proponibile in astratto a prescindere dalla domanda di annullamento – laddove deve tenersi conto “del complessivo comportamento delle parti” e quindi della mancata (o limitata) fruizione dei rimedi riguardanti l’atto, vale a dire (stando all’orientamento prevalente) proprio (e solo) l’azione di annullamento.
Nell’ipotesi introdotta dalla legge di stabilità, però, il mancato assolvimento dell’onere (oltre che diritto) di proporre i rimedi preventivi rileva sul piano della delibazione sulle condizioni di ammissibilità dell’azione e non (come nell’esempio prima fatto) sul piano della configurabilità di un danno ingiusto alla cui produzione (o al cui aggravamento) ha contribuito lo stesso danneggiato (art. 1227 c.c.).
Nella sostanza, la parte che si duole dell’eccessiva durata del giudizio intanto potrà azionare la propria pretesa in quanto si sia adoperata, già nel corso del giudizio a quo, attraverso la predisposizione di una strategia processuale idonea a scongiurarel’eccessiva durata di tale giudizio.
Dall’altro lato, il riconoscimento alla parte di un “diritto” all’esperimento dei rimedi preventivi restringe – quanto meno da un punto di vista “psicologico”, ponendosi dalla prospettiva del magistrato che voglia assicurare la ragionevole durata del processo – la libertà di manovra del giudice del processo presupposto nello strutturare come più ritiene opportuno la trattazione della causa: ad esempio ritenendo che questa è troppo complessa per essere svolta nelle forme accelerate cui tendono i “rimedi preventivi”.
I quali sono individuati dal “nuovo” art. 1-ter.
Guardando alle principali tipologie di processo, si tratta, quanto al processo civile, della introduzione del giudizio nelle forme di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c. (ovvero della richiesta di convertire il rito da ordinario a sommario ex art. 183-bisc.p.c.) e, nei casi in cui tale procedimento sommario non possa aver luogo, della richiesta, rivolta al Giudice, di decidere la causa a seguito di trattazione orale, ex art. 281-sexies c.p.c., almeno sei mesi prima che siano spirati i termini di cui all’art. 2, comma 2-bis, della legge Pinto (ossia i termini di durata “ragionevole” del processo); nel processo penale, rispettando lo stesso termine, l’imputato dovrà depositare una “istanza di accelerazione” (prima della legge di stabilità tale ipotesi era ricompresa tra i casi in cui l’indennizzo non era riconosciuto ex art. 2, comma 5-bis); nel processo amministrativo, andrà presentata una istanza di prelievo volta a favorire (come stabilisce l’art. 71-bisc.p.a., introdotto per l’occasione) la decisione del ricorso nella forma della “sentenza breve” ex art. 74 c.p.a..
Una volta superata la prima strettoia (consistente nell’aver tenuto un comportamento “virtuoso” teso alla più rapida definizione del giudizio a quo), la parte che voglia vedere riconosciuto il proprio diritto al risarcimento del danno per irragionevole durata del processo potrebbe incontrare una ulteriore difficoltà (e siamo alla seconda delle linea direttrici indicate in premessa), consistente nella necessità di vincere una presunzione di inesistenza del pregiudizio.
La normaricomprende fattispecie con riguardo alle quali la presunzione in parola è condivisibile (il riferimento è alle ipotesi in cui il processo si estingua per rinuncia o inattività delle parti) ed altre dove la scelta del legislatore è discutibile (irrisorietà della pretesa o del valore della causa valutata in relazione alle condizioni personali della parte), per quanto in linea con alcuni recenti arresti della giurisprudenza, ofattispecie che, più radicalmente, sono in odore di incostituzionalità (si pensi alla introduzione di domande nuove tramite il ricorso per motivi aggiunti nel processo amministrativo).
Ancora, si presume (deve ritenersi: sempre salva la prova contraria) inesistente il danno se la parte ha conseguito, per via della eccessiva durata del giudizio, vantaggi patrimoniali uguali o maggiori rispetto alla misura dell’indennizzo dovuto: ipotesi volta a scongiurare l’abuso del diritto d’azione.
Quanto alla terza linea direttrice, la legge di stabilità ridefinisce le forchette edittali entro cui avviene la determinazione in concreto dell’indennizzo, nel senso di una complessiva (e vistosa) riduzione degli importi liquidabili (importi ulteriormente riducibili nei casi di cui all’art. 2-bis, commi 1-bis e ss.).
Sempre nell’ottica di razionalizzazione della spesa pubblica (sotto il diverso profilo della disciplina dei procedimenti di liquidazione), si collocano le disposizioni sulle “modalità di pagamento” (contenute nel “nuovo” art. 5-sexies) laddove si prevede un iter burocratico il cui completamento condiziona il diritto del creditore (dell’indennizzo) a procedere in via esecutiva, ovvero in sede di ottemperanza, per ottenere, in concreto il pagamento.
Il compendio normativo sinteticamente esaminato, nel mentre tende alla realizzazione di un risparmio di spesa (ovvero di una razionalizzazione dei procedimenti di spesa), presenta più di un profilo di sospetta costituzionalità, ed in particolare con gli artt. 111 e 117 Cost. (quest’ultimo assunto come parametro “di collegamento” con le norme sovranazionali, comunitarie e convenzionali, laddove l’istituto dell’indennizzo per irragionevole durata del processo affonda le proprie radici).