A cura di Ermanno Corsi Obiettivo, dice il Cavaliere dl Lavoro Stefania Brancaccio, è l’armonia con l’ambiente e lo sviluppo sociale Nell’immaginario collettivo una “donna da combattimento”, una A cura di Ermanno Corsi Obiettivo, dice il Cavaliere dl Lavoro Stefania Brancaccio, è l’armonia con l’ambiente e lo sviluppo sociale Nell’immaginario collettivo una “donna da combattimento”, una “donna in carriera”, viene pensata aggressiva, arrogante e stressata, un po’nevrotica. niente di tutto questo, anzi l’esatto contrario, se si tratta di Stefania Brancaccio, Cavaliere del lavoro nominata da Giorgio Napolitano cinque anni fa: una delle poche donne imprenditrici meridionali che abbiano meritato questa alta onorificenza. L’immagine che subito risalta di lei è quella della pacatezza, del modo elegante e gentile, del ragionamento leggero e convincente, denso di contenuti: frasi non complicate frutto di teoremi, ma dirette e lineari per esprimere i concetti base che ispirano la sua azione manageriale. un’azione che ha come “teatro” una delle aziende tecnologicamente più avanzate del Mezzogiorno: la Coelmo (Costruzioni elettromeccaniche Monsurrò) con i suoi tre stabilimenti in Campania: uno a Marcianise e due in acerra, dei quali si può dire subito che sono stati strutturati con grande rispetto dell’ecosistema. in questa parte dell’entroterra napoletano e casertano vengono prodotti, con l’esperienza di chi opera da tre generazioni, gruppi elettrogeni industriali e marini con sistemi di energia alternativa “sussidiari alla rete elettrica per le emergenze nei paesi industrializzati, oppure come fonte unica di energia nei paesi emergenti”. Fondata a napoli nel 1946 da Mario Monsurrò, la Coelmo rappresentava uno degli esempi più coraggiosi di ricostruzione industriale dopo la devastazione della guerra. ne dava prova una delle famiglie più note di torre annunziata, a quel tempo considerata la capitale dell’arte bianca per i mulini e pastifici che aveva. dal fondatore, la responsabilità passa poi al figlio Domenico, ingegnere, che con le visioni proprie di una seconda generazione, allarga il campo d’azione. Oggi, con una produzione di oltre 2mila unità all’anno, e con più di cento occupati fra dipendenti e indotto, l’azienda ha distributori nei maggiori paesi del mondo e uffici di rappresentanza soprattutto in Medio Oriente (“scelte mirate,compiute stando molto attenti ai possibili rischi”, si sottolinea). Moglie di Domenico, Stefania Brancaccio entra nella Coelmo, di cui ora è vice presidente, alla metà degli anni Settanta. “Trovai un’azienda ben strutturata che via via ha saputo individuare, sul piano internazionale, la propria nicchia di mercato”. E quali i criteri guida? La risposta ha il valore di una sintesi strategica: “alta specializzazione nel progettare realizzazioni compiute sulla base di commesse specifiche, presenza a gare internazionali, installazione dei prodotti in loco coordinando reti di post vendita, collegamenti on line per tutte le esigenze di ricambio”. Con questa impostazione, risultata vincente, si sta ora misurando la terza generazione rappresentata dai figli Marco, Maura e Jacopo. In oltre 35 anni di esperienza, Stefania Brancaccio ha intrecciato lavoro e studio per giungere alla necessità di una nuova cultura, una efficiente alleanza tra impresa e tutti i soggetti che le danno vita. alla base ci sono i valori dell’umanesimo cristiano che scaturiscono dalla sua formazione culturale e professionale. napoletana della collina di San Martino (“dove sono nata e dove tuttora vivo”), ha un padre medico-chirurgo e una madre americana, una pittrice allieva di Carlo Striccoli. I primi anni di scuola sono tutti vomeresi. Il liceo classico è l’Umberto di via Carducci. Alla Federico II, la prima scelta è per Giurisprudenza (“prevaleva in me la parte razionale”). poi si lascia conquistare dalla Filosofia (“il pensiero pensante di matrice hegeliana”). Suo maestro è Cleto Carbonara col quale si laurea con una tesi scientifica su Galileo Galilei. Quando entra in azienda, la nuova sfida è il mercato estero. Lei, scrupolosa ed esigente con se stessa, pensa di dover completare la preparazione perfezionando l’inglese più tecnico. Ma l’azienda è fatta soprattutto di bilanci, di partite doppie, di dare e avere. Allora fa uno studio nuovo come fosse il quinto anno di Ragioneria. Ma non finisce qui. Sensibile alla lezione olivettiana della fabbrica a misura d’uomo, consegue al Magistero di Torino la specializzazione in psicopedagogia dell’età evolutiva. “Dopo la laurea del ’72 -spiega – sentivo di dover fare di più: puntare a una maggiore apertura mentale e dotarmi di strumenti nuovi per capire il mondo e poter parlare di azienda responsabile”. Come dire: non si fa impresa senza cultura e senza la dovuta attenzione al patrimonio umano. Con questa convinzione assume ruoli di rappresentanza e responsabilità nel settore strategico della piccola industria, a livello casertano, campano e nazionale. Spiccata l’attenzione all’apporto delle donne, suoi gli sportelli di ascolto e di mediazione familiare. L’azienda etica non è più un’idea velleitaria, ma operativa fondata sulla centralità della persona. “Nessun dipendente”, afferma, “è mai un semplice numero, ma la parte di un collettivo dinamico con cui confrontarsi continuamente operando così, nell’interesse comune, la saldatura fra capitale finanziario e capitale lavoro”. Quale l’obiettivo da perseguire? La risposta è immediata: “un’azienda più libera e più umana in armonia con l’ambiente e lo sviluppo sociale”. Ma affinché l’azienda sia “un campo d’eccellenza” va sostenuta la parte che per troppo tempo è rimasta più debole. “Di questo sono stata sempre convinta”, dice. “Il vero nemico delle donne è il tempo. prima della legge del duemila, ho valorizzato molto le donne in ruoli che erano appannaggio quasi esclusivo degli uomini, non sottovalutando gli altri compiti che sono specifici delle donne”. A una manager dotata di questa sensibilità i riconoscimenti non sono mancati: il premio Minerva riservato, a Roma, alle persone che compiono azioni rilevanti; il premio Alumni per chi valorizza i nuovi talenti; il Cavalierato del Lavoro (“per me un punto di partenza e non di arrivo”). I tempi non concedono distrazioni specie in territori che “sembrano volerti risucchiare verso il basso e trascinarti in un pantano”. Lavorare al Sud richiede quel coraggio in più che a lei non manca. usa una metafora convincente: “Siamo bravi a ballare come Ginger Rogers e Fred Astaire; solo che noi non balliamo con tacchi robusti ma a spillo e non dico che fatica è”. Di sicuro si “ballerebbe” un po’ meglio con banche più attente all’impresa e alle idee innovative,con minore pressione fiscale (in Campania l’Irap è più alta di tre punti), con una burocrazia meno soffocante. Il futuro come si presenta? Più che al pessimismo, Brancaccio si affida a un richiamo cinematografico. “Mi viene in mente il film ‘Le mani sulla città’ di Francesco Rosi: penso a quanto sia attuale e a quanta strada c’è ancora da percorrere”. In quale direzione? “Quella delle regioni settentrionali più sviluppate, dalla Lombardia al veneto. Ma con un punto fermo: l’impresa vista come soggetto storico autonomo e complesso, un corpo vivo, una realtà che deve nascere e deve potersi sviluppare secondo le logiche sue proprie”.