Pensioni, questione di giustizia (e di pudore)

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Coloro che oggi protestano furono tra i responsabili della rovina. Si ricordino del mito di Protagora

Il decreto-legge n. 65/2015, ieri convertito in legge alla Camera dei Deputati, affrontando il tema del blocco delle rivalutazioni delle pensioni, incide su uno dei temi più sentiti nella discussione sulla possibilità di tenuta dell’equilibrio della finanza pubblica. Come si ricorderà, l’urgenza del provvedimento scaturiva dagli effetti della recente sentenza – n. 70/2015 – della Corte Costituzionale che, pur non escludendo la legittimità di interventi legislativi incidenti sui trattamenti pensionistici, censurava il cosiddetto Decreto “Salva-Italia” del 2011 in considerazione della necessità di dare alle pensioni un sistema di recupero della perdita di potere d’acquisto. Il Governo è stato così costretto ad intervenire, e lo ha fatto con un provvedimento di più ampio contenuto, che non si occupa solo di pensioni. Nel decreto-legge n. 65/2015, infatti, sono rifluite varie questioni: dal rifinanziamento della cassa integrazione in deroga e dei contratti di solidarietà, alla correzione del coefficiente di rivalutazione del montante per le pensioni contributive; dalla revisione della disciplina dell’erogazione anticipata del TFR, al pagamento delle prestazioni erogate dall’INPS il primo del mese. Tra i vari contenuti del provvedimento mi limiterò ad approfondire quello concernente le pensioni. Dunque, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del decreto-legge n. 201/2011 nella parte in cui disponeva il blocco della rivalutazione automatica delle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo INPS per gli anni 2012-2013. Con tale pronuncia la Corte ha ritenuto che, “sotto il profilo dell’adeguatezza del trattamento pensionistico”, siano stati “valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto e con irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore”. Dallo sfondo giuridico della sentenza fanno dunque capolino l’articolo 3 (sotto il profilo del principio di ragionevolezza), l’articolo 36, primo comma, (principio della sufficienza della retribuzione) e l’articolo 38, secondo comma (in riferimento all’adeguatezza della retribuzione). La Consulta ha infatti evidenziato che “l’interesse dei pensionati – in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti –, è teso alla conservazione del potere di acquisto, estrinsecazione del diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Un diritto che appare irragionevolmente sacrificato nel nome di “esigenze finanziarie” non illustrate in dettaglio. In quest’ottica, la Corte ha osservato che la disposizione censurata “limitandosi a richiamare genericamente la situazione finanziaria”, aveva disposto il blocco della contingenza senza chiarire a sufficienza i termini della crisi economica, intaccando così i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale. Voglio ribadire ancora una volta, che le sentenze della Corte – pur discutibili (nel senso di poter essere oggetto di discussione) sul piano dottrinale e politico – devono essere, tuttavia, rispettate nella sostanza. Faccio perciò sommessamente notare che il decreto n. 201/2011 fu rubricato come «Salva-Italia» – scusate se è poco –, e fu varato, in emergenza, in un momento in cui il Paese, rischiando il default, metteva a rischio il pagamento di pensioni e stipendi. E fa specie vedere che chi fu responsabile politico di quel disastro e ebbe poi almeno il pudore (forse anche figlio di una cattiva coscienza) di votare quel provvedimento, si erga ora a paladino delle “restituzioni integrali”, all’insegna del motto populista «restituire tutto a tutti e subito». Vorrei ricordare a questi campioni della giustizia sociale (a stagioni politiche e giorni alterni) che nel mito di Protagora, Zeus, per salvare gli uomini dalla rovina, donò loro aidós (pudore) e díke (giustizia) perché costituissero nella città vincoli di philia in grado di tenere insieme una comunità. Ecco: chi ha avuto responsabilità di governo e non è stato in grado di perseguire la díke, la giustizia sociale, portando il proprio Paese sull’orlo del precipizio, faccia ora, almeno prevalere l’aidós, il pudore – a Napoli si direbbe lo scuorno –, rinunciando alla facile demagogia per racimolare qualche voto in più. Il decreto-legge n. 65 risarcisce tempestivamente, ancorché parzialmente, i pensionati ingiustamente penalizzati. Tempestivamente, perché il Governo non ha atteso la legge di stabilità per intervenire. Parzialmente, perché non restituisce tutto a tutti, ma opera secondo il principio di gradualità, evocato dalla Corte, combinandolo col rispetto degli obiettivi di finanza pubblica e col principio dell’equilibrio di bilancio, evitando (alla luce dall’articolo 81), di aprire una falla di oltre 16 miliardi nelle casse dello Stato. È bene non dimenticare che col decreto 65/2015 si corregge un provvedimento (il decreto 201/2011) che, pur presentando dei difetti, si era reso necessario proprio per arginare buchi spaventosi nel bilancio statale. Una voragine che – tra l’altro – finiva per scaricare sulle generazioni future i costi di un sistema pensionistico certo non orientato al principio della solidarietà intergenerazionale. Perciò, i correttivi adottati nel decreto intervengono a tutelare l’interesse dei pensionati titolari di trattamenti modesti cui si applica – e solo ad essi – la rivalutazione graduale degli assegni pensionistici fino a sei volte il trattamento minimo Inps. Una rivalutazione che decresce con l’aumentare dell’assegno. Dunque, una garanzia di conservazione del potere di acquisto dei pensionati orientata alla gradualità, alla progressività e, più in generale, all’equità – nell’attuale scenario economico –, secondo una logica redistributiva, che, certo, dà risposte più significative a chi ne ha più bisogno. Il contenuto nel testo approvato ieri a Montecitorio – dunque – mi convince, soprattutto perché ritengo che ogni forma di intervento correttivo sul sistema previdenziale non possa prescindere dall’obiettivo di evitare di aggiungere elementi di iniquità nel rapporto tra generazioni. Proprio in considerazione di ciò, l’argomento pensioni non può più essere considerato un dogma indiscutibile. In un Paese in difficoltà, dove la visione del futuro dei giovani si fa di giorno in giorno più fosca, dove si operano blocchi stipendiali e innalzamento dell’età pensionabile, non sia considerato eretico chiedere qualche piccolo sacrificio ai pensionati più abbienti (titolari di assegni aurei e babypensionati) che hanno ampiamente beneficiato dei vantaggi del sistema retributivo. Come non condividere, perciò, la scelta del Governo di privilegiare, alla luce della sentenza della Consulta, i redditi medio-bassi, penalizzando – nel contempo – i titolari di pensioni alte e, anche, di vitalizi (che fanno cumulo con le pensioni per il calcolo della rivalutazione)?