di Melania Fiume
E’ il 27 agosto, il sole nel cielo di Capri ha appena impegnato la parabola discendente, la sala del Museo Cerio comincia a riempirsi. Benchè sia l’ultimo sabato di un mese caldissimo, in poco tempo sarà piena. C’è il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, l’economista Mario Mustilli, c’è Massimo Lo Cicero, economista anch’egli, autore del volume che è all’origine della discussione: Quale politica economica (Guda Editori). E c’è Marco Zigon, numero uno di Getra e presidente della Fondazione Matching Energies, industriale che a Capri è di casa. “Si sentiva il bisogno – dice prima di prendere posto sul podio – di un volume che sistematizzasse i tanti interventi che Lo Cicero ha affidato ai giornali, soprattutto al Mattino, sulle criticità che impegnano l’Europa, l’Italia e il Mezzogiorno”.
Presidente, qual è il suo giudizio sul lavoro di Lo Cicero?
Dobbiamo tutti un grazie a Massimo, io credo, per aver saputo interpretare il ruolo di osservatore dell’economia e della società del Sud capace di andare oltre gli stereotipi. Le sue analisi sempre lucide, gli spunti sempre interessanti, le proposte sempre costruttive.
E’ il motivo per cui figura tra i componenti del Comitato Scientifico della sua Fondazione?
Certo. Massimo è fondamentale riferimento della Matching Energies sui temi dell’economia. Dobbiamo riconoscere che Lo Cicero rappresentare l’occhio lungo che ci serve per guardare più in là della siepe di casa nostra, per non perdere il rapporto con il “resto del mondo” e i suoi cambiamenti.
Che cosa le è piaciuto del suo libro?
Massimo ricostruisce le tappe di un percorso di riflessione che condivisibile a larghi tratti. Il ruolo di Mario Draghi e della sua politica economica non convenzionale. La critica a un’Europa che non ha completato il suo percorso di unificazione politica e fiscale, dopo quella monetaria. La critica all’idea che lo sviluppo si ottiene spendendo i fondi pubblici. La convinzione che avere più infrastrutture è sufficiente nei contesti a sviluppo consolidato, ma non basta dove è necessario gettare le basi per lo sviluppo.
Quali sono i passaggi che meritano di essere evidenziati a suo parere?
Approvo l’indicazione che occorre creare valore affidandosi a chi fa questo mestiere, e cioè imprese e banche (allo Stato il compito di assicurare il supporto di istituzioni più efficienti). Mi piace – perché la esperimento tutti i giorni – il concetto di “filiera frammentata”, tipica delle aggregazioni digitalizzate. Trovo apprezzabile l’idea di una “Virgola di Ponente”, cioè l’integrazione funzionale dell’area occidentale del Paese, dal Piemonte alla Campania.
E che cosa la convince di meno?
L’ammonizione rivolta alla classe dirigente che ha guidato il Paese a non aver messo in campo una politica economica tale da riunire il Mezzogiorno al Centro Nord e all’Italia di mezzo, rilanciare la crescita, portare in Europa la voce di un Paese più credibile e più affidabile. Su questo il mio giudizio è diverso.
Può provare a spiegarlo?
Trovo che il taglio critico così presente nei ragionamenti di Lo Cicero sia assolutamente centrato per ciò che è stata l’Italia degli ultimi decenni. Ma non vale, a mio avviso, per quello che si è cominciato a fare da un anno in qua. Non si può negare lo sforzo compiuto per iniziare un “nuovo corso”. Una fase “nuova” che, nella qualità di presidente della Fondazione Mef e di imprenditore, ho il dovere di giudicare in maniera positiva. Parlo dello sforzo di riportare il Sud nell’agenda di Governo.
Visto che ci siamo, parliamo di Renzi senza remore. Che cosa pensa delle sue politiche?
Renzi ha legato il suo destino politico, forse con troppa enfasi, al Referendum costituzionale, perché ritiene una priorità riuscire a dimostrare che l’Italia le riforme le fa davvero. Perché solo così può ottenere le deroghe che servono per finanziare nuovi investimenti. Inoltre il presidente del Consiglio ha ingaggiato un confronto severo con l’Europa delle burocrazie e delle rigidità, spesso a muso duro. Con le riforme avviate, ha rilanciato seriamente credibilità e reputazione dell’Italia in Europa. Questo per amore di verità dobbiamo riconoscerlo.
Parla dello sforzo di innestare un processo di cambiamento del nostro Paese che lo renda più efficiente e competitivo? Ma quali sono i passaggi salienti a suo avviso?
Jobs Act, Riforma PA, Riforma costituzionale volta a ottenere più governabilità e maggiore semplificazione legislativa. E’ un percorso appena cominciato, I prossimi mesi sono cruciali. Il tema è come andare avanti e cioè come perseguire gli obiettivi di un Italia diversa in una Europa diversa.
Andare avanti significa puntare a una maggiore integrazione politica dei Paesi europei. Se non si è riusciti a farlo quando l’Europa cresceva, come pensa si possa farlo oggi?
Condividendo le politiche di sicurezza e di difesa per fronteggiare il terrorismo e gestire un fenomeno come l’immigrazione. Assieme a questo, occorre condividere politiche di stimolo della crescita e della coesione economica. Ci vuole anche un’Europa unita e più forte: al mondo invece al mondo c’è chi vorrebbe l’Europa unita, ma paradossalmente la preferirebbe “debole”. Ossia sempre con qualche problema da risolvere.
L’Europa, si dice, non si fa in un giorno…
E oggi più che mai l’idea europea ha bisogno di un aggregatore in grado di surrogare la mancanza di spirito unitivo dovuto al fatto che l’Europa viene da secoli di conflitti aspri tra gli Stati nazionali. Ecco perché credo nel collante della difesa comune contro il pericolo del terrorismo e del fanatismo. Ma per essere più credibile, per guadagnare la stima delle altre nazioni, il nostro Paese deve superare l’esame più grande: azzerare il proprio dualismo interno. E cioè giungere alla vera e definitiva unificazione nazionale.
Il Sud ci mette fuori gioco?
Siamo l’unico Paese d’Europa ad avere come caratteristica marcata il dualismo interno. Fino a pochi anni fa ci faceva compagnia la Germania, ora non più. Perché i tedeschi hanno risolto il problema del divario tra Est e Ovest con una computa riunificazione. Ma c’è di peggio: non abbiamo ancora ben chiaro che cosa sta incubando nel Mezzogiorno, dove è saltata la possibilità di gestire il disagio sociale amministrando un consenso ottenuto per clientela. Ed è tramontata la possibilità di affidarsi all’opzione dell’economia sommersa come espediente per reggere l’impatto della crisi.
Risposte distorte per surrogare la scarsa competitività del nostro Paese.
Sì. Sono saltate. E al loro posto non c’è ancora nulla. Questo ha portato il disagio del Sud a un punto vicino al collasso. Mi riferisco a un sondaggio di SWG, agenzia demoscopica del Nord Est, ripreso dal Mattino a metà agosto. Un sondaggio allarmante e per molti versi anche inquietante.
Che cosa si rileva nell’indagine?
I dati della ricerca parlano di un Sud che è come una polveriera pronta a esplodere. Rabbia, disgusto, voglia di cambiamenti radicali sono una sintesi del sentiment attuale dei meridionali. La ricerca fa tornare in auge una parola che avevamo dimenticato, come lascito del secolo alle nostre spalle: la parola «rivoluzione». Viene auspicata dal 51% degli intervistati, contro il 39% del Centronord. Sottovalutare questo dato sarebbe una pericolosa miopia delle classi dirigenti del nostro Paese.
E’ necessario prendere molto sul serio questo malessere strutturale. La popolazione del Sud è arrivata al limite della tolleranza: versa in una situazione non più sostenibile sotto il profilo economico e sociale. Che fare?
Necessariamente bisogna agire con immediatezza affinché le classi dirigenti (italiane e meridionali) possano ritrovare reputazione e capacità di leadership. Tocca a noi decidere dove andare. Vale sempre la frase di Giuseppe Mazzini: ltalia sarà quel che il Sud sarà, ma in un senso nuovo. Vale a dire che l’Italia sarà in Europa quello che il Sud le consentirà di essere.
In un capitolo centrale del suo libro, Lo Cicero esamina in profondità i limiti del Masterplan.
Si ha ragione. Serve un Masterplan che non chiuda i meridionali in una sorta di riserva indiana, ma che si intrecci con politiche nazionali. Con i seguenti obiettivi: ridurre il disagio sociale cambiando le condizioni di vita dei meridionali; riformare la burocrazia e la PA; rimodellare il federalismo che ha accentuato la disgregazione nazionale ed ha esasperato il clientelismo. Così potremo riaccendere i motori dello sviluppo a patto che il compito di fungere da elemento propulsivo sia affidato agli attori reali dell’economia. E cioè principalmente a banche e imprese.
di Melania Fiume