Nuove politiche per un mondo del lavoro che cambia

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di Ugo Calvaruso

Il mondo del lavoro sta cambiando in quanto i suoi meccanismi strutturali stanno assumendo una nuova forma. Quindi, sia quando parliamo di Welfare State che, nello specifico, di Politiche del Lavoro, bisogna essere in grado di superare le vecchie categorie provenienti dal XIX secolo. Di fatto, da un lato, i livelli di disoccupazione sono molto alti, soprattutto in Italia, e, dall’altro, il ciclo istruzione, lavoro e pensione si sta modificando dinanzi a una vita lavorativa sempre più precaria e il bisogno di formazione (realmente) continuo. Il grande processo di modernizzazione, tanto declamato, spesso determina nuove forme di lavoro basate sulla precarizzazione e sull’innalzamento di barriere all’ingresso del mercato del lavoro per i giovani o comunque per le persone che non hanno mai lavorato in maniera attiva.

Pertanto, discutere su come innovare le politiche del lavoro diventa sempre più importante. Ma il dibattito deve riuscire a trovare nuovi significati e nuovi modalità per riuscire non solo a comprendere i cambiamenti in atto ma, soprattutto, a trovare nuovi strumenti e nuovi pratiche per accompagnare e sostenere le persone all’interno di questa nuova dimensione sociale.

La situazione italiana su questo fronte è, in ogni caso, più che critica. Verso la fine degli anni ‘90 sono stati chiusi gli uffici di collocamento: questa ha generato un’enorme debolezza all’interno degli equilibri del mercato del lavoro. Perché, anche se prima funzionavano male, il Ministero riusciva ad avere dei dati relativi o delle “voci” su ciò che accadeva sul territorio. Questo ruolo venne assegnato alle Province, che all’epoca rilasciavano le licenze di “caccia” e di “pesca” e di manutenzione degli edifici scolastici. A distanza di anni si parla ancora del “possibile” funzionamento dei Centri per l’Impiego.

Però l’obiettivo principale non dev’essere solo quello di far funzionare gli attori, quali i Centri per l’Impiego, le Agenzie per il Lavoro e gli Enti di formazione, e gli stakeholder appartenenti al settore delle politiche del lavoro. Bisogna piuttosto riuscire a costruire un sistema nuovo che sappia trovare soluzioni adatte alle nuove trasformazioni emergenti. Cosicché si possano rendere gli strumenti per il collocamento, l’incontro tra domanda e offerta, gli interventi formativi, e non solo, sempre più efficaci e adatti al momento storico che stiamo vivendo.

L’inefficacia degli attuali strumenti ci lascia nell’incapacità di affrontare in maniera adeguata la complessità della realtà. Questo genera inquietudine, malessere e, soprattutto, non ci rende capaci di stare e agire nell’incertezza data dal cambiamento in atto.

In particolar modo, chi si occupa di politiche attive del lavoro, o meglio ancora quelle formative, non può non impegnarsi affinché la discussione politica, le strategie a supporto dell’occupazione e la progettazione di interventi di accompagnamento della persona siano capaci di conciliare le necessità della comunità con quelli di competitività delle aziende e di salute psicologica del singolo individuo.

Il più delle volte l’inefficacia di un intervento formativo è conseguenza della miopia di chi ritiene che basti “militarizzare” la formazione, o svolgere meri processi di addestramento, rendendola obbligatoria, per ottemperare a qualche norma di legge o per curvare un teorico profilo di competenza, costringendo così le persone a partecipare a percorsi formativi di scarso valore psicologico e professionale. Troppo frequentemente si guarda al processo formativo come un qualcosa che sì può fare per moda o per rispondere a degli Avvisi di finanziamento. Una visione che inizia ad essere un può stretta, almeno rispetto agli ultimi decenni.