Napoli, l’aldilà di tutto di Gualtiero Peirce. La doppia vita di Napoli

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di Erika Basile

“A Napoli ci sono luoghi che custodiscono dei sentimenti straordinari. Proviamo a raccontarli. Proviamo a interpretare questo sentimento della città”: Gualtiero Peirce introduce così il suo docufilm Napoli, l’aldilà di tutto, presentato in anteprima al MANN il 25 marzo e andato in onda su Raitre lunedì 28 in seconda serata. La storia di una perdita e della sua elaborazione. Tra realtà e finzione, storia e  magia, la memoria dei morti diviene strumento contro la fugacità della vita stessa.
Come si fa a spiegare che cos’è la morte a una bambina che ha da poco perso il padre, che ha paura di dimenticarlo e, quindi, di farlo morire anche dentro di sé? Un libro ritrovato che parla dell’assenza, La doppia vita dei numeri di Erri De Luca, fornisce la traccia da seguire, un’ispirazione che apre una sorta di tunnel spazio-temporale nella terra di mezzo delle anime pezzentelle. Durante una giornata particolare, accompagnamo una madre (Antonia Truppo) e sua figlia (Suami Puglia) attraverso luoghi in cui il confine con l’altrove sembra più sfumato.
Si parte dal Cimitero delle 366 fosse, voluto nel 1762 da Ferdinando IV di Borbone. È stato il primo cimitero costruito a beneficio dei cittadini indigenti e collocato fuori le mura, a Poggioreale. Un’opera ingegnosa progettata da Ferdinando Fuga secondo un preciso ordine cronologico: una fossa comune per ogni giorno dell’anno, compreso quello bisestile. Una piazza quadrata, senza lapidi né croci, solo numeri, nessun nome.
“Ma se volete vedere dei morti, ma proprio assai, dovete andare al Cimitero delle Fontanelle”, sentenzia il custode (Gianni Ferreri).
Raggiungiamo la collina tra il quartiere Sanità e Materdei, per entrare nella grande cattedrale di tufo. La temperatura si abbassa, la luce si affievolisce e siamo circondati da lunghe file di teschi e di ossa, accumulati, per lo più, durante l’epidemia di peste del 1656 e quella di colera del 1836. Vittime di mala morte, anime inquiete, senza il conforto del ricordo.
È il regno delle capuzzelle: resti di corpi sconosciuti, oggetto di un’antica devozione che fa parte della spiritualità popolare napoletana. Alla fine dell’Ottocento, infatti, comincia a diffondersi un culto, osteggiato in ogni modo dall’Istituzione ecclesiastica, che arriva a vietare l’accesso ai siti e a definirlo, nel 1969, una pratica “pagana e superstiziosa”.
Con le capuzzelle si parla. Vengono pulite, lucidate, adottate. Ricevono preghiere ed ex voto. A loro è attribuito il potere di concedere grazie. E se questo accade, sono sistemate all’interno di un’edicola, di uno “scarabattolo” di legno o di metallo.
Altrimenti, sono ripudiate e punite con l’abbandono. I teschi diventano, quindi, il cardine per il costituirsi di famiglie allargate di fedeli, accomunati dalla relazione condivisa con questi parenti acquisiti.
Ogni capuzzella è diversa dall’altra e ha una storia prodigiosa, ma esiste una gerarchia: ce ne sono alcune particolarmente ricercate, come ‘a capa ‘ro capitano, quella di donna Concetta (il teschio che suda), quella con le orecchie, nella chiesa di Santa Luciella ai Librai. E la capuzzella di Lucia (la sposa infelice), nella Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, la chiesa de’ ’e cape ’e morte, dove le anime scurdate (Lello Arena, Tina Femiano, Antonella Morea, Gianni Ferreri, Claudia Napolitano, Giancarlo Cosentino, Giovanni Scotti) si raccontano e raccontano storie alla piccola Suami.
Le anime pezzentelle, dimenticate, senza sepoltura, senza benedizione, vagano ancora nel limbo del Purgatorio e chiedono cura, implorano il “rinfresco” (refrisco), che possa lenire il calore delle fiamme e abbreviare la pena da scontare, per accedere al Paradiso. Sono degli intermediari, che comunicano con i prescelti attraverso i sogni, mostrandosi sempre in divisa, come ogni messaggero che si rispetti.
“Qua sotto ci sta la miseria, ci stanno i poveri. Quelli che erano già morti quando erano ancora in vita. Il povero che muore ogni giorno per colpa della vita. Perciò, le statue delle anime purganti tengono le braccia aperte, sono anime pezzentelle, sono come i mendicanti che chiedono l’elemosina davanti alle chiese”. Stranieri a se stessi e ai vivi, bloccati in un infinito intermezzo di solitudine ed espiazione.
Questa identificazione tra vivi e morti, accomunati dalla dannazione e dalla miseria, dall’emarginazione e dall’abbandono, rende immanente l’idea stessa del Purgatorio nella città partenopea. Napoli come sede di un purgatorio continuamente in movimento, come afferma Erri De Luca, le cui citazioni fungono da collante nella narrazione. La città conserva un dialogo costante con i suoi defunti, forzandone l’assenza, invocandoli e accogliendoli come numi domestici, dando loro una seconda vita attraverso il ricordo e i sogni.
Raffaele La Capria in L’armonia perduta parla di città che sono rimaste bloccate, paralizzate, città il cui cammino verso la modernità a un certo punto si è interrotto, in alcuni casi, irrimediabilmente. Napoli è una di quelle. Continua ad essere una città irrisolta. “Non si è evoluta gradualmente dispiegando tutte le proprie potenzialità, com’è accaduto a Londra, a Parigi o a New York, ma a un certo momento (nel passato prossimo o in uno più lontano) per ragioni note o (per lo più) misteriose, c’è stato un blocco. Il blocco non riguarda soltanto la storia degli eventi, ma proprio il processo di crescita; riguarda la lingua, che rimane fissata a modi di pensare, parole, strutture, non più adeguate; riguarda la visione del mondo, il sentimento della vita, che si chiudono nell’autocontemplazione così tipica di quei luoghi dove tutto è già accaduto, e da cui tutto sembra ormai accadere sempre altrove”. In un orizzonte bloccato dall’incertezza, l’impalcatura offerta dalla religiosità popolare è andata a colmare un vuoto, attraverso cerimonie, simboli, rituali che agiscono come un balsamo consolatorio e, contemporaneamente, generano forme di cultura. Tra le due dimensioni dell’esistenza resta aperto un canale di comunicazione: la morte fa sparire volti e corpi ma, attraverso il ricordo, chi non c’è più appare solo nascosto da un velo di nebbia attraverso cui se ne può scorgere ancora l’ombra. “Non c’è un aldiquà e un aldilà: noi stiamo sempre tutti assieme”, fa recitare Peirce a una delle anime pezzentelle che ci hanno guidati nel nostro viaggio di scoperta.
Quando il Napoli ha vinto il suo primo scudetto, sul muro del cimitero qualcuno ha scritto: “Guagliù, che vi siete persi!”. La risposta è arrivata puntuale la mattina seguente: “Ma chi ve l’ha detto che ce l’amm’ perza?”.