Napoli è città di abiti sartoriali, non di stracci

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(foto da Imagoeconomica)

di Francesco Cascino*

Leggo ancora alcuni sporadici articoli a difesa della Venere degli Stracci di Michelangelo Pistoletto, installata a Napoli senza nessun rispetto per il genius loci, poi finalmente bruciata da un clochard, uomo veramente libero e di sane visioni, e oggi ripristinata a invadere le armonie di una delle città d’arte più belle e interessanti del mondo. Mi corre l’obbligo morale, emotivo e professionale, ma soprattutto mi scorre l’amore per Napoli nelle vene, di dire che ormai da mezzo secolo nessuno più impone alle città delle forme da doversi sorbire ogni giorno senza prima coinvolgere i cittadini nelle scelte e nelle riflessioni che devono necessariamente essere preliminari all’imposizione di un totem che, volenti o nolenti, trasmette contenuti. Se quei contenuti sono incoerenti e addirittura contrari alle identità dei luoghi fanno dei danni enormi.
Partiamo dall’inizio, perché è importante per tutti, anche se alcuni riducono il dibattito a bello o brutto, cosa che con l’arte non ha mai avuto niente a che vedere. Anzi, proprio la moda che Pistoletto denuncia, ormai 60 anni fa, con la Venere degli Stracci è la principale colpevole del gigantesco e pericolosissimo equivoco tra espressione delle proprie identità e bellezza effimera, quella che poi fa dipendere le scelte di milioni di sudditi da una influencer che nella vita sa solo truccarsi. E truccare.

Le riflessioni dei difensori dell’opera di stracci si liquidano in un attimo, anche perché sono così vicine alla retorica di PistolOtto che ormai si superano da sole: non c’è nessuna coerenza tra i monumenti e i luoghi della città. Non c’è nessuna intenzionalità di metterla in piazza come parte di un disegno complessivo che la Venere “chiuderebbe in armonia”, non c’è nessuna relazione tra i luoghi di Napoli e le identità fisiche, metafisiche, artigianali, culturali e urbanistiche della Venere, cosa fondamentale a cui un’opera d’arte pubblica deve riferirsi nei suoi contenuti, prima di tutto, e nelle sue forme. L’armonia vera è sensoriale, emotiva, erotica, intellettuale ed estetica ma non cosmetica, bisognerebbe spiegare agli allenatori del bar, in modo da rispettare l’anima dei luoghi e soprattutto lo sguardo dei cittadini, costretti a subire la potenza di un’opera che entra nell’inconscio e genera pensieri vecchi di 60 anni e distanti anni luce dalla napoletanità che il mondo ama: quella che cambia ogni giorno. D’altronde si chiamano città d’arte perché i nostri avi le costruivano così, rispettando la risonanza tra le nostre morfologie interiori ed esteriori e le forme estetico funzionali; e ancora funzionano, innamorano, seducono e producono feliCittà.

Vogliamo parlare di contenuti?
La Sartoria Napoletana è un’identità, non un semplice e becero marchio: è una natura, un’intelligenza emotiva riconosciuta, una radice millenaria che nasce per esprimere e non per descrivere, perché Napoli ha il pensiero laterale, usa la ghiandola pineale per comprendere i fenomeni complessi e ricorre alla visione degli artisti, che siano il popolo o gli artisti riconosciuti, per raccontare al mondo cose di cui il mondo ha bisogno e di cui è fatto.
Vestirsi di Sartoria Napoletana vuol dire dare forma dinamica a quell’eros che è la spinta vitale di ognuno di noi, vuol dire raccontarsi muovendosi, vuol dire teatro, performance, ricetrasmissione; lo scopo di ogni vita e di ogni relazione. Perciò gli stracci offendono Napoli proprio nel nucleo dialettico più strategico e profondo, quello dei contenuti di un’intera città che deve sopportare la vista di un mostro che la contraddice in pieno sole, senza peraltro portare soluzioni. Perché c’è anche questo da dire: un’opera di arte pubblica che invade lo spazio collettivo e connettivo deve necessariamente essere elaborata OGGI per raccontare di Oggi e prevedere il Domani, così è utile ai cittadini e insieme ai cittadini deve essere ideata e progettata; da molti anni è finita la maledetta epoca degli artisti celebrati a danno di noi poveri celebranti, e per fortuna. L’arte pubblica oggi, in tutto il mondo, i grandi artisti e i grandi curatori la fanno con gli abitanti, con quelli che poi ci devono convivere con le opere, mica quest’altra moda dannosissima e illusoria della street art. Ed è facile progettare in modo coinvolgente per chi conosce la professione e rispetta luoghi e persone: si mettono in campo azioni di “estrazione” dell’inconscio collettivo e, insieme a chiunque voglia partecipare fisicamente o idealmente, l’opera prende forma. In questo modo, e solo in questo modo, l’opera sarà di tutti e per tutti. Per sempre.
Il resto sono stracci di sapienza residuale, ego e presunzione ottocentesca senza il minimo rispetto per una città che vive nel cuore del mondo, per i suoi cittadini che meritano espressioni del proprio presente e per l’arte stessa che non si fa più così da mezzo secolo. La solita invadenza piemontese senza cultura, senza empatia per cittadini e paesaggi. Hanno già perso anni fa, ancora non imparano ad aver rispetto dei briganti.
Non capisco poi chi l’ha deciso. Nessuno che ami i propri luoghi può pensare di prendere un’opera già fatta 60 anni prima e portarla pari pari – anzi più grande e sproporzionata della misura originale – nei luoghi di vita quotidiana della gente.
Nessuno che sia preparato, che abbia studiato insieme agli artisti migliori e che abbia empatia e amore per il bene pubblico prima che smania di arrivismo. Dico ai Sindaci e agli Assessori alla Cultura che vogliono lasciare tracce nella Storia, come hanno fatto i nostri grandi del passato: controllate i curriculum e soprattutto controllate i risultati prima di assumere curatori con i soldi pubblici che poi vi fanno perdere occasioni di crescita e sviluppo territoriale, altrimenti non veniteci a parlare di meritocrazia e competenze al potere. Non avete idea di quanto faccia bene il potere delle competenze.

* Direttore artistico DiCo – Digital & Contemporary Art
www.saichetidico.art