Un piccolo frammento di ruota dentata, con un ingranaggio costituito da puntelli a forma sferica, che potrebbe appartenere al leggendario planetario di Archimede, il meccanismo che il grande inventore pare abbia utilizzato nel III secolo a.C. per prevedere il moto dei pianeti. E’ uno dei pezzi piu’ affascinanti dei 400 reperti che compongono la mostra ‘Thalassa, meraviglie sommerse del Mediterraneo’, in programma da oggi al 9 marzo prossimo al Museo archeologico nazionale di Napoli e che vuole essere una sorta di sintesi dell’opera dell’archeologia subacquea dal 1950 a oggi. Quel frammento, un pezzo tanto piccolo quanto affascinante per il legame che salda tra storia e realta’ e che per la prima volta lascia la Sardegna dopo il ritrovamento a Olbia, rimanda al reperto del calcolatore della nave Antikythera, il primo relitto di un’imbarcazione rinvenuto a inizio ‘900 nel Mare nostrum. Quest’ultimo, riproposto con una proiezione in 3D nel Salone della meridiana, presenta dentelli a sezione triangolare, risultando quindi meno preciso rispetto al meccanismo di Archimede, al quale si ispirava. Antikythera e’ un vero scrigno di tesori (30 reperti provenienti dal Museo archeologico di Atene), meritandosi quasi un’intera sezione della mostra curata dal direttore del Mann, Paolo Giulierini, e da Salvatore Agizza, Luigi Fozzati, dall’attuale Soprintendente del Mare per la Sicilia, Valeria Li Vigni, e dal suo precedessore e marito Sebastiano Tusa, morto nel tragico incidente aereo di Addis Abeba del marzo scorso. Con il relitto affondato tra il 60 e il 70 a.C. sono stati riportate alla luce singole parti di strutture in marmo e bronzo, gioielli, vasellame di vetro, ricercati elementi di osso e mobilio, probabilmente commissionati da un atelier o da un commerciante d’arte. Ma anche oggetti d’uso comune, utilizzati a bordo per la preparazione di cibi o di medicinali e per lo svago durante il viaggio, tra cui una macina, un pestello a forma di dito e pedine da gioco.
Thalassa e’ una mostra che punta a scardinare le tradizionali logiche dell’archeologia italiana, a cominciare dal lavoro interdisciplinare, che nel caso dei ritrovamenti sui fondali marini fa diventare lo studio dei reperti o l’individuazione dei siti, in maniera piu’ stringente, il prodotto di un’equipe composta da diverse professionalita’. Al centro c’e’ la vita del Mediterraneo, “luogo di incontro tra popoli e di crescita grazie alla circolazione di merci, idee e persone – spiega Giulierini – un mare che e’ stato e continua a essere una possibilita’, un ponte, un’occasione per i popoli, non un elemento di separazione”. Il Mare nostrum accoglie i visitatori all’ingresso, con una mappa in 3D che rappresenta i fondali e uno studio che riporta a 60 milioni di anni fa, quando e’ stata datata la sua nascita. Dal lato opposto della sala troneggia l’Atlante Farnese, centro simbolico della mostra, circondato da specchi come all’interno di un caleidoscopio. Il globo celeste che sorregge faticosamente sulla testa rappresenta le costellazioni come erano conosciute nel II sec. a.C. e, con un gioco di luci e specchi, rimanda alle nove sezioni dell’esposizione. Tra queste c’e’ un focus sul porto antico di Napoli, con i ritrovamenti degli scavi per la metropolitana di Piazza Municipio, come un’ancora di oltre due metri e mezzo del II sec. a.C., mai esposta prima, un remo e un albero, residui di imbarcazioni attraccate a Neapolis. Sulle pareti di un cratere dell’VIII sec. a.C. si raccontano le fasi del rischio maggiore per chi viaggia in mare, il naufragio: si vede la barca rovesciata, tutti i corpi dei naufraghi appaiono senza vita, alcuni con il corpo mutilato dai pesci, tranne uno, che con un braccio disteso in avanti da’ l’idea di voler nuotare verso la salvezza. Tra i resti dell’imbarcazione spicca il disegno della svastica, simbolo che all’epoca era ritenuto di buon augurio per la traversata.