Moda, così la burocrazia italiana favorisce l’industria del falso

13
Foto di Tamara Bellis su Unsplash

“Rivoluzione green, digitalizzazione, sempre più regole, burocratizzazione dei controlli di sistema che poco o niente hanno in comune con le nostre caratteristiche produttive e distributive della moda e del tessile: questi argomenti rappresentano, per la concorrenza straniera, scappatoie ed escamotage per produrre in copia centinaia di migliaia di pezzi, le nostre ricerche qualitative ed estetiche, amichevolmente ecologiche in anteprima sulle nostre piccole collezioni. Si tratta di un regalo a quei Paesi che copiano il Made in Italy come Cina, India, Indonesia e Vietnam, con i quali si fa fatica a condividere valori come l’equità sociale, la giusta remunerazione del lavoro”. È quanto si sottolinea in un documento di Unimpresa secondo cui “la transizione verde è ormai uno strumento nelle mani delle multinazionali, mentre per le microproduzioni è diventata un maglio dai costi insostenibili”.

Debiti, gestione complessa
“Per tutelare le produzioni italiane nel mercato internazionale – spiega Unimpresa – occorre attuare politiche accorte nei confronti dei paesi più aggressivi Cina, India e Turchia ed è necessario adempiere agli impegni di sostegno alle economie emergenti e a noi complementari. L’Italia deve chiedersi se riuscirà ad imporre un cambio culturale alle “nazioni colosso” che vantano storie millenarie solo perché da noi i concetti dei diritti d’autore, dei brevetti e della contraffazione sono diventati, da qualche anno, uno strumento di protezione per la nostra produzione”. Unimpresa lo scorso 6 agosto ha partecipato al quinto incontro al ministero delle Imprese e del Made in Italy. Alla riunione hanno preso parte il ministro Adolfo Urso, il viceministro Valentino Valentini, il capo di Gabinetto Federico Eichberg e il vicecapo di gabinetto Elena Lorenzini. “Durante la riunione – continua la nota – è emerso che le aziende fanno fatica a ripagare i prestiti post Covid e sono in una situazione di grande difficoltà e instabilità finanziaria, poiché è venuta a mancare la liquidità per pagare i debiti. Gli strumenti finanziari d’emergenza proposti dal governo non sono riusciti ad alleviare i debiti, maturati durante la pandemia. Ragion per cui, la catena produttiva soffre, si rovinano le relazioni imprenditoriali costruite in decenni. Tutto ciò con impatto negativo su chi lavora e sull’occupazione in generale, tant’è che in numerosi distretti tessili si ricorre ancora alla cassa di integrazione nelle sue varie forme”.