Mezzogiorno: quale Macroregione per il suo sviluppo?

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di Andrea Piraino*

Dopo un colpevole silenzio durato anni, si è finalmente acceso anche nel nostro Mezzogiorno il dibattito sulle Macroregioni. Ne sono concreta dimostrazione due eventi di notevole importanza verificatisi negli ultimi giorni. Il primo, costituito dalla celebrazione presso l’Università degli studi di Messina, con l’intervento di numerosi e qualificati studiosi e politici, del convegno su “la Macroregione del Mediterraneo centro-occidentale”. Il secondo, per presentare a Napoli il Comitato referendario, che vede tra i propri fondatori esponenti di partiti politici nazionali e di movimenti meridionalisti locali oltre a personalità del mondo del giornalismo, dell’impresa e del terzo settore, per istituire “la Macroregione autonoma del Sud”. In sintesi, dopo la costituzione nel 2015 della Macroregione Adriatico-Jonica e nel 2016 di quella Alpina, gli avvenimenti richiamati mostrano che anche nel nostro Mezzogiorno si comincia a capire che senza una riconsiderazione dei territori regionali, che con i loro confini rigidi ed insuperabili hanno finora ostacolato piuttosto che agevolato lo sviluppo, la rinascita del Sud è praticamente impossibile perché soffocata da un mix  di impotenza delle Regioni sia a livello interno che europeo e di autoritarismo dello Stato  e dell’Unione Europea che invece di agire sussidiariamente in loro favore le sottopongono ad un innaturale ruolo di dipendenza per la gestione delle politiche da loro decise. Insomma, anche per il nostro Mezzogiorno, la dimensione regionale, figlia di una certa idea di decentramento funzionale dello Stato, comincia ad apparire sempre più inadeguata per guidare i processi che si verificano sul territorio ed invoca aggregazioni di natura economico-sociale che possono mettere insieme nuovi asset strategici capaci di rilanciarne i processi di sviluppo e di coordinamento delle politiche.
Soltanto che, come spesso accade quando una quistione esplode quasi improvvisamente, i suoi termini essenziali vengono declinati con un certo grado di approssimazione, determinato più che dalle sue coordinate oggettive dal punto di vista di chi nel dibattito se ne fa promotore o, comunque, protagonista. Così che, a proposito di questa idea della necessità di una Macroregione autonoma del Sud per rilanciare lo sviluppo del Mezzogiorno, si registra un intreccio di analisi, proposte ed anche progetti diversi che non chiariscono, ad esempio, quale deve essere la sua proiezione: se, esclusivamente, nazionale o europea o, viceversa, integrata secondo entrambe le prospettive. Non è una quistione né banale né secondaria. Anzi, è la prima e pregiudiziale delle scelte da operare. Sapendo bene che la vera novità delle Macroregioni è costituita dal modello delineato dalla normativa europea che prevede l’aggregazione di aree regionali omogenee per territori, storia, cultura,  sensibilità politiche ed interessi socio-economici senza che queste diano vita ad una nuova istituzione che si sostituisca alle altre ma si ponga come una strategia politica che deve essere adottata da tutte le varie istituzioni esistenti (in primis, quelle regionali) per attuare nel miglior modo possibile la coesione territoriale che, nello sviluppo più recente, affianca e completa la coesione economico-sociale. Quindi, bisogna essere molto chiari nell’affermare che la Macroregione del Sud che si vuol costruire a livello nazionale deve avere la capacità di proiettarsi a livello europeo verso l’intero bacino del Mediterraneo occidentale  i cui territori presentano problematiche e sfide comuni a partire dai problemi riguardanti i sistemi energetici, la ricerca scientifica, l’innovazione, la cultura, la tutela ambientale, lo sviluppo e la tutela dei diritti fondamentali, la sicurezza e, soprattutto, i flussi migratori. In sostanza, tutti i settori portanti per una crescita economica intelligente e sostenibile.
Ma se questo è vero, una seconda condizione ne deriva per la proposta di istituzione della Macroregione del Sud. E cioè che essa non può essere limitata alla sola parte continentale dello Stivale ma deve includere almeno le due grandi regioni insulari (Sicilia e Sardegna) e sciogliere il nodo dei rapporti con la Puglia e la parte meridionale del Lazio. Avendo sempre presente che non si tratta di costituire una nuova istituzione dalle dimensioni maggiori delle attuali Regioni ma di costruire una strategia politica di coordinamento tra i territori interessati.
Non è certo questa la sede per esplicare il significato di questa condizione di non-istituzionalità della Macroregione. Ciò che, invece, importa qui sottolineare è che quest’ultima è una forma di aggregazione territoriale non più determinata da retaggi sovrani e vincoli storici  ma indotta dalla capacità di dare risposte unitarie a problemi comuni che, certo, non si fermano ai singoli confini regionali ma investono quistioni presenti in  più territori. Con la conseguenza che gli effetti macroregionali riguarderanno contemporaneamente aree proiettate  in dimensione sia europea che nazionale e quindi in grado di scardinare il vecchio regionalismo, in crisi irreversibile, ed avviare sia la riforma dell’ordinamento costituzionale, ancora una volta fallita con il referendum del 4 dicembre 2016, sia la costruzione di un’Europa federale fondata su comunità territoriali e geo-politiche di dimensione continentale.
In definitiva, la strategia macroregionale che necessita per il Sud è una politica complessa che serve non soltanto a rilanciare la coesione territoriale per contribuire a  costruire in Europa una Unione veramente comunitaria ma anche e soprattutto a ridisegnare in Italia l’organizzazione territoriale della Repubblica per renderla più funzionale alla dinamica degli interessi e delle esigenze del Mezzogiorno che così potrà  avviare un cammino di sviluppo in grado di ridurre il divario di condizioni esistenziali che attualmente lo separano dal Nord e  diventare, con tutto il Paese,   più competitivo nel sistema globale in cui ormai siamo chiamati a vivere.

*docente universitario e costituzionalista