Mediterraneo a tavola nuovo coefficiente di salute

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A cura di Cristian Fuschetto Esiste un coefficiente di mediterraneità. È il valore di riferimento di tutti gli chef “stellati” a quattro anni dal riconoscimento da parte dell’Unesco della dieta mediterranea quale A cura di Cristian Fuschetto Esiste un coefficiente di mediterraneità. È il valore di riferimento di tutti gli chef “stellati” a quattro anni dal riconoscimento da parte dell’Unesco della dieta mediterranea quale patrimonio immateriale dell’umanità. Ad attestarlo è la ricerca “La Dieta Mediterranea tra le stelle Michelin”, condotta dal MedEatReserch, il Centro di ricerche sociali sulla Dieta Mediterranea dell’Università Suor Orsola Benincasa diretto da Marino Niola. Presentata giovedì scorso nell’ambito del convegno internazionale su “La Dieta Mediterranea. Prodotti, narrazioni, salute” tenuto presso l’ateneo napoletano, lo studio dimostra il cosiddetto “effetto Unesco”, ovvero – spiega Niola – “uno spostamento del baricentro della grande ristorazione sui piatti della nostra tradizione, una sterzata originata dal riconoscimento Unesco”. Il che, si premura subito di aggiungere l’antropologo “ha una grande importanza sia dal punto di vista culturale, facendoci di fatto riappriopriare delle nostre radici, sia su quello più propriamente scientifico: il cambiamento di abitudini alimentari impatta immediatamente sulla salute”. Il benessere è servito E, in effetti, è proprio il binomio dieta-salute a spiegare, secondo i venticinque chef chef intervistati (tra cui Niko Romito, Davide Oldani, Ciccio Sultano, Lino Scarallo, Pino Cuttaia, Massimo Bottura, Gennaro Esposito e Heinz Beck), il successo della dieta. Romito parla di vera e propria “evoluzione gastronomica”, altri come Sultano e Scarallo sottolineano invece il fatto che il modello mediterraneo si sia diffuso anche all’estero proprio perché rappresenta uno stile di vita di qualità. Ma, a proposito di successo all’estero del prodotto che forse meglio rappresenta l’italia nel mondo, è utile sottolineare che a dare un nome al nostro modo di stare a tavola non fu un italiano ma un medico americano: il benemerito Ancel Keys, biologo, fisiologo e nutrizionista presso l’Università del Minnesota. Come tutto ebbe inizio Inviato al seguito delle truppe durante la Seconda guerra mondiale si occupò, per conto del Ministero, di un ampio programma sull’alimentazione. Nel corso del suo soggiorno italiano partecipò nei primi anni ‘50 a Roma al primo “Convegno internazionale sull’Alimentazione”. Keys rimase affascinato dal dato della bassa incidenza di patologie cardiovascolari e di disturbi gastrointestinali della Campania e dell’isola di Creta. Una correlazione che doveva in qualche modo essere spiegata scientificamente. Per questa ragione fu il promotore del primo studio pilota volto a chiarire il mistero: “Seven Countries Study” basata sul confronto dei regimi alimentari di 12.000 persone, di età compresa tra 40 e 59 anni, sparse in sette Paesi del mondo (Finlandia, Giappone, Grecia, Italia, Paesi Bassi, Stati Uniti e Jugoslavia). Nel 1962, si trasferì a Pioppi, una frazione del comune di Pollica, nel Cilento, che divenne il quartier generale dei suoi studi. Dopo decenni di indagini giunse alla conclusione che l’alimentazione a base di pane, pasta, frutta, verdura, moltissimi legumi, olio extra-vergine di oliva, pesce e pochissima carne era la responsabile dello straordinario effetto benefico sulla popolazione locale. La medicina collettiva di queste popolazione fu allora battezzata come “Mediterranean Diet” e resa celebre in tutto il mondo con il suo “Eat well and stay well”, autentico capolavoro di divulgazione scientifica. Educazione alimentare Dopo Keys, lo sappiamo, altri decenni di buio dominati dai grassi saturi da fast food, fino al benefico effetto Unesco. Oggi, si legge nello studio della MedEatReserch, si mangia più mediterraneo per 18 chef su 23. Altro tema molto sentito dagli chef stellati è quello dell’educazione alimentare, ritenendo elemento di vitale importanza educare al gusto, alla cucina e alla conoscenza delle materie prime sin dall’infanzia. Eppure abbondano i distributori automatici. Anche questo è segno di debolezza, culturale e scientifica.