L’Italia ha bisogno di unità per affrontare le prossime sfide: perché non ripartire da un nuovo inno?

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L’Impero romano fu tenuto insieme dall’aspirazione alla civitas romana, e dalle strade consolari, solo sotto Giustiniano fu necessario un corpus iuridicum per uniformare il comportamento delle popolazioni orientali annesse all’impero. L’Italia, invece, è stata edificata sull’ “unità d’arme, di lingua, di altare” del Manzoni. Dopo la guerra infatti la pretesa del PCI di indicare nell’antifascismo il collante nazionale fu aggirata, da DC e partiti filoatlantici, permeando la Costituzione della retorica manzoniana. I cattolici pensavano di superare la spaccatura seguita all’8 settembre 1945 ma non ha funzionato.
Nata tra il 46 e 48 come compromesso tra due visioni inconciliabili del mondo, la Costituzione Repubblicana (di più la sua interpretazione) ha indirizzato tutte le risorse economiche dal piano Marshall, e legiferato per dare a tutti: casa, pezzo di terra da coltivare, posto di lavoro fisso preferibilmente pubblico, seconda casa e solo dopo per infrastrutture, opere di urbanizzazione e supportare l’industria. E’ stato come dare l’aspirina agli Italiani, gli ha fatto passare il mal di testa, non l’influenza. Nei 50 anni successivi alla fine della guerra l’Italia si è arroccata in una Costituzione civicamente e socialmente d’avanguardia ma azzoppata dall’esclusione delle forze di Sinistra dal governo del Paese e di quelle Destro-monarchiche dalla società politica. L’arco costituzionale, chiuso a destra dal Partito Liberale e aperto a sinistra agli extraparlamentari, ci ha riservato 50 anni di pace sociale al costo del più grande debito pubblico europeo, movimentismo politico a tratti violento, instabilità governativa e, dopo il 1990, divisioni e invidie sociali; mai neppure l’ombra della solidarietà tra estranei necessaria a fondare la coscienza nazionale. In quello stesso periodo la Germania, per due volte, aveva avuto il coraggio di invocare il significato di Heimat per rivendicare l’identità nazionale come valore collettivo e poi la sua riunificazione.
Dietro la mancata nascita in Italia di una coscienza nazionale c’è anche il mancato successo dei simboli di coesione collettiva adottati dopo il ripudio di quelli fascisti, monarchici e in parte risorgimentali. Alcuni nuovi simboli non erano condivisi dall’intera popolazione, in più mancava il collegamento tra l’Italia repubblicana, figlia della Resistenza, e le fondamenta storiche e culturali del liberalismo. Così per decenni la bandiera rossa e Bella ciao sono stati simboli sostitutivi o associati a quelli istituzionali con conseguenze divisive dirompenti.
La vittoria di Berlusconi nel 1994 ritardò di 20 anni il piano della Sinistra di arrivare al potere ma non la convinse a riformare la Costituzione, né lo fecero gli insuccessi dei governi Prodi neppure, molto dopo, l’ascesa di Renzi, per abbattere il quale il PD decise di delegittimare in chiave antifascista della sua riforma della Costituzione. Era una scelta inevitabile, visto che dopo il 1989 antifascismo e resistenza erano gli unici valori scampati alla condanna storica dell’ideologia comunista. La sorte di Bersani, all’esito dei pre-colloqui per la formazione del governo PD coi 5S nel 2013, non era servita a nulla.
Gli Italiani dal canto loro sono talmente umorali da aver impalmato Renzi al congresso PD nel 2013, osannato alle elezioni europee nel 2014, rottamato insieme alla riforma costituzionale nel 2016.
Quello offerto da Renzi non era il vaccino contro il mal-funzionamento/costume del Belpaese ma neppure un placebo, poteva invece costituire l’atto di rottura nei confronti di alcuni ispirativi divisivi e il precedente per successive riforme più incisive. Ma Lega e Fratelli d’Italia erano troppo avvitati su loro stessi per accorgersi dell’autogoal, per cui se si ritengono gli eccessi di Salvini, i genitori del governo giallo-rosso, la smania di Berlusconi e la miopia della Meloni ne sono nonna e zia.
Sappiamo come siamo arrivati dove siamo ora.
Mattarella ha fatto sponda a Conte, la paura ha consigliato i 5S di baciare il rospo, il PD è risorto. Renzi è l’ultimo democristiano in attività e oggi gioca a condizionare la maggioranza, non esagerando con gli STOP e incassando per ogni GO. Forse non basteranno i posti di governo e sottogoverno per aumentare la percentuale di elettori attribuiti dai sondaggi, ma la centralità in vista dell’elezione del Capo dello Stato nel 2022 di certo.
Il Paese è estraniato, vive con apprensione la seconda ondata di COVID, consapevole di pagare la libertà della scorsa estate, quando in meno di 30 giorni, furono vanificati i mesi di lock-down della primavera. Al motto “meglio morire di COVID che di fame” Conte gridò “tana libera tutti”, invece di aprire alle sole attività produttive e commerciali, e in questi primi giorni del 2021 ci ritroviamo con l’indice di contagio al 14% e, di nuovo, con centinaia di morti al giorno.
Dal novembre scorso il governo ha una maggioranza parlamentare ma non politica, vista la rappresentatività cartolare del partito di maggioranza relativa e le risse tra partiti e dentro i partiti di maggioranza. Però, a meno di cigni neri (il Governo che cade la sera e la mattina dopo si insedia il nuovo), le elezioni si terranno nel 2022; l’alternativa è un terno a lotto per tutti, Lega e Fratelli d’Italia compresi.
Nel frattempo?
Verrebbe da chiedere perché mai, in assenza di numeri e convinzione per una nuova Heimat, non si sottoponga ai cittadini una scelta di rottura eclatante, dirompente, forse dividente su un aspetto secondario del nostro stare insieme; tanto per testarli sull’idea di un nuovo pactum societatis.
L’Italia ha bisogno di unità e non si può pensare di farle affrontare COVID, nuovo settennato presidenziale, nuove Camere senza tentare di avviare il superamento di ciò che ancora divide il Paese.
Sono passati 70anni dal 48 e 31 dal crollo del muro di Berlino.
Perché ad esempio non un nuovo inno nazionale, estraneo a Casa Savoia, Fascismo, Comunismo. Magari “O mia Patria” di Giuseppe Verdi, un autore che voleva la repubblica per il suo Paese e il cui lavoro, per tale motivo, fu rifiutato da Savoia e Mussolini e snobbato dall’Esarchia. L’Inno di Mameli (1847) è una delle tante marcette risorgimentali e fu pescato e adottato nel 1946 come provvisorio, senza discussione nè dibattito pubblico; rimase provvisorio per 70anni, esattamente fino al 15 novembre 2017 quando fu dichiarato inno della Repubblica italiana in Commissione Affari Costituzionali del Senato che approvò in sede legislativa un disegno di legge di un solo articolo, dopo il voto favorevole della medesima Commissione della Camera del 2016. Di nuovo senza un dibattito pubblico adeguato. L’inno nazionale gli Italiani se lo sono ritrovato, non scelto, e sembrano averlo intonato non sempre come avrebbero dovuto, tranne dopo le vittorie degli Azzurri ai Mondiali di calcio.