Liberalizzazioni, il governo diviso tra figli e figliastri

66

 

Doveva passare alla storia come la settimana delle liberalizzazioni, quella che si chiude, ma non andrà oltre poche righe di cronaca. Insomma, era cominciata male, con lo sciopero dei tassisti e le proteste degli ambulanti, è finita anche peggio. Perché una cosa è certa: al time-out imposto dal ministro Graziano Delrio seguirà – c’è da scommetterci – l’ennesima proroga (nel caso specifico, dei termini della direttiva Bolkestein che risale al 2006). Ed è finita, in ogni caso, con il trionfo della piazza, l’intangibilità delle corporazioni e la conferma dell’insopportabile discriminazione tra dipendenti pubblici e privati.

Del resto, che cosa ci si può aspettare da una classe dirigente che puntualmente affida tutte le spinose questioni del Bilancio dello Stato ad un decreto che non a caso viene definito “milleproroghe”? E soprattutto che cosa si può pretendere da un governo – il terzo della legislatura – prodotto ibrido di forze che tecnicamente si dovrebbero definire contrapposte – in cui gli azionisti di maggioranza (Pd) da giorni, se non da mesi, sembrano in tutt’altre faccende affaccendati e comunque impegnati ad azzuffarsi come galli nel pollaio piuttosto che a dare la dritta all’esecutivo e al Paese?

Il fatto è – a voler essere buoni – che si fa presto a dire liberalizziamo se poi, ristagnando le nuvole di tempesta nel cielo economico, la crisi intanto non arretra di una virgola. Anzi. Insomma, le liberalizzazioni sono difficili da digerire quando le prospettive generali sono tutt’altro che positive. Basta dare uno sguardo alle più recenti ed impietose cifre che emergono dai principali indicatori. Fra tutti, quello sull’occupazione. L’anno scorso – rileva l’Inps nel suo Osservatorio – i contratti a tempo indeterminato sono stati meno del 2015 nella misura di 763 mila. Certo, la spiegazione del crollo – in termini percentuali si tratta di una diminuzione del 37,6% – si può trovare nel “forte incremento registrato nel 2015, anno in cui si poteva beneficiare dell’abbattimento integrale dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per tre anni”, annota l’ente di previdenza. Ma non basta. Inutile aggiungere, poi, che il trend negativo si ripercuote, quest’anno, anche nel lavoro a tempo, di cui i discussi voucher rappresentano l’immediato termometro. Nel gennaio scorso, infatti, le vendite di questi strumenti sono stati pari a 8,9 milioni (valore nominale di 10 euro), vale a dire, più o meno lo stesso del gennaio 2016 (8,5 milioni). E in questo caso, ammette l’Inps, il motivo risiede nella “forte flessione nella crescita, sempre più marcata a partire da ottobre 2016”,  ma può riflettere anche “gli effetti del decreto legislativo con cui sono stati introdotti obblighi di comunicazione preventiva in merito all’orario di svolgimento della prestazione lavorativa”.

Resta, però, il dato negativo. Anzi, a scanso di atteggiamenti pietosamente benevoli, il Centro Studi di Confindustria non esita a ricordare che, nell’Eurozona l’Italia “resta fanalino di coda con una crescita inadeguata ad uscire dalla crisi”. Il tutto mentre lo spread tra Btp decennali italiani e Bund tedeschi torna a quota 200 e lo sforamento della spesa pubblica – conferma da Bruxelles dove si trova sotto esame, il ministro dell’Economia – richiederà una manovra correttiva da 3,4 miliardi. Che “s’ha da fare” e presto anche, ha sottolineato Pier Carlo Padoan.

Ma torniamo alle liberalizzazioni, che secondo alcuni sono un po’ come il cane che si morde la coda. Nel senso che senza liberalizzazioni è davvero difficile immaginare di poter crescere.

E, allora, dicono i tassisti: perché non liberalizzate anche le farmacie, i notai e – udite, udite – i Flixibus? Vale a dire, i bus low cost, nuovi servizi di trasporto interregionali a prezzo scontato portati in Italia da società come Megabus e, appunto, FlixBus, considerato che nel famoso Milleproroghe, proprio mentre la piazza s’infiammava, qualcuno ha inserito un codicillo per cui “solo gli operatori del trasporto, e non piattaforme digitali, possano ottenere l’autorizzazione a operare”? E ancora: perché nella riforma degli statali targata Marianna Madia sarebbe confermata la reintegra del dipendente pubblico, come nel vecchio articolo 18, preclusa invece al dipendente privato? Figli e figliastri, dunque.

E si potrebbe continuare per molto ancora. Ma non andiamo troppo per il sottile. In fondo, non siamo il Giappone, noi, dove – pensate un po’ – la Panasonic ha pensato bene di dover redarguire i suoi 100 mila dipendenti: “Siate efficienti e meno occupati, lavorate meno, non state in ufficio oltre le 20, prendetevi le vacanze dovute”. O forse sì.

A pensarci bene, il Giappone ha la più alta percentuale di impiegati che lavorano oltre 49 ore alla settimana e al tempo stesso il peggior livello di produttività tra le nazioni all’interno del gruppo G-7. Ci somigliamo un po’.