Gli avvenimenti di cronaca nera, le “stese” di camorra, le continue aggressioni ai danni di inermi cittadini, le esecuzioni d’imprenditori sollecitano la reminiscenza di un saggio storico costruito, grazie a fonti angioine e aragonesi, sopravvissute alle macerie della Seconda Guerra Mondiale, e scritto per tentare di leggere il martoriato tessuto sociale della nostra città. Qualche anno fa Amedeo Feniello, storico del medioevo, collaboratore all’inserto culturale “La Lettura” del Corriere della Sera, dette alla luce il romanzo storico “Napoli 1343. Le origini medievali di un sistema criminale” . In esso colse il parallelismo storico tra la lontana notte del 1343, quando nel golfo di Napoli una nave genovese in rada, carica di merci fu assalita e il capitano barbaramente trucidato, e la sua terribile notte del 31 gennaio 2005, quando davanti alla scuola, dove insegnava, vennero ammazzati tre giovani. Da entrambe le cronache “noir” era possibile cogliere l’efferatezza dell’operato. La mattanza nella provincia di Napoli era stata realizzata con l’inganno, i sicari per mimetizzarsi si erano travestiti da gendarmi, avevano ammanettato e sparato alla testa per rivendicare il controllo assoluto su quel territorio. Omertà o antica saggezza la scelta del silenzio da parte della popolazione? Solo una bambina in un tema aveva descritto l’esecuzione raccapricciante a cui aveva assistito con la sua famiglia.
Coinvolto dall’improvviso desiderio d’impegno civile della dirigente, Feniello si era ritrovato a parlare dello scottante tema della criminalità con l’assessore alle politiche sociali della Regione e aveva scoperto la vacuità degli interventi prospettati, nonché l’aria sbrigativa dell’interlocutrice. Tanto grave l’accaduto, tanto evanescenti le risposte. Infine era stata chiusa la scuola perché considerata oggetto sensibile dai carabinieri, in quanto erano in ballo gli interessi dei clan. Quest’esperienza si riannodò alla successiva attività di ricercatore dello storico e saggista in cui ha cercato con solerzia una risposta a questa consuetudine criminale, a questa malapianta che alligna nel territorio partenopeo. Legami e nessi storici da riscoprire a partire dal 1343 in un’ottica di lungo periodo, filamenti malsani di un unico arbusto: la mala dai mille volti e i suoi loschi affari in settecento anni. Nella cronaca relativa ai fatti di pirateria del 1343 sembra che a far gola ai cittadini napoletani fossero i viveri, carni e frumento, preziosissimi in tempo di carestia, al punto tale da camuffarsi come esponenti del Re Roberto il Saggio da poco defunto (da neanche un anno era divenuta regina Giovanna I). Sì trattava di clan cittadini familiari armati che si organizzarono per realizzare l’assalto alla nave mentre era ferma nel porto di Baia.
Colpisce l’impunità dei protagonisti dell’epoca in un momento difficile della monarchia e di forte degrado della vita politica. Si trattò di un episodio di ordinaria violenza medievale o lo svilupparsi di una trama di sofferenza, miseria, prevaricazione, violenza che scorre ancora oggi nelle strade di Napoli? Eppure Napoli nel Trecento era capitale del Regno, come oggi è capitale del Mezzogiorno, era crogiuolo di culture e tradizioni, di scambi vivi e intensi, la medesima vivacità e bellezza naturale apprezzate ancora oggi nel XXI secolo da tanti turisti e cittadini partenopei. Allora dominavano le famiglie e i clan dei “seggi” e debole era il potere centrale, la violenza occupava sovente il posto del dialogo nella risoluzione della conflittualità. Era già forte la commistione tra interessi privati e pratica di governo. Assente lo Stato, sfiduciati i cittadini, ieri come oggi, la bella Parthenope soffoca in un’agonia disperante? O è possibile ancora immaginare un futuro diverso di crescita economica e di emancipazione civile?