Le politiche sull’invecchiamento: il destino degli anziani legato a Usa e Australia

(immagini da Imagoeconomica)

Solo i Paesi di immigrazione, ormai plurisecolare, come Stati Uniti ed Australia, potrebbero “salvare” le buone condizioni di vita degli anziani.

In un Servizio di Marco Valsania e Luca Veronese de “il Sole 24 Ore” di stamane dal titolo  “Chi saranno i vincitori e i vinti della rivoluzione demografica mondiale” (https://24plus.ilsole24ore.com/art/come-cambiera-popolazione-mondiale-AF87p4N) viene affrontato il tema dei nuovi equilibri demografico globale. “L’invecchiamento degli abitanti è destinato a penalizzare l’Europa e anche la Cina, i migranti salvano gli Stati Uniti”

E’ molto importante affermare che l’invecchiamento costituisce per un Paese o per area, e per il mondo intero un successo enorme, la prova del progresso dell’umanità (le persone vivono vite più lunghe e più sane e scelgono consapevolmente se e quando avere figli) si trasforma in un grande peso per le economie avanzate di oggi, che perderanno inevitabilmente importanza nel Pil globale”.

Ho sempre pensato, da statistico, che specialmente oggi, e a maggior ragione nel futuro, è facile prevedere e seguire i modelli demografici dei Paesi. Difficile, invece, è creare le politiche economiche adeguatamente auspicabili allo scopo, oltre che necessarie, e soprattutto, renderle compatibili con il coacervo delle politiche del mercato del lavoro che non sempre sono raccordabili nel funzionamento dei reciproci ingranaggi, nei raccordi temporali e nel verificarsi delle concordi ipotesi di lavoro alla base di politiche demografiche ispirate a quei modelli statistici ed alle politiche del mercato del lavoro .

Il record di invecchiamento demografico italiano è associabile e lo si dice, non da oggi, a condizioni di vita dignitose, che corrispondano almeno alla pensione ed i sussidi spettanti, nonché alle spese di assistenza medicanecessarie. Usando un ragionamento oggi diffuso, ma molto semplice: se c’è un adeguato ingresso di immigrati, dopo un certo periodo sono essi in grado di finanziare con i propri contributi. Intanto non è proprio così e l’inghippo è che nel nostro Paese non è organizzata un’immigrazione filtrando le competenze professionali di cui siamo deficitari per ricavarne la presenza di un patrimonio umano ed i contributi lavorativi, come è avvenuto in altri Paesi europei, ad esempio Francia e Germania, ma che per principi umanitari viene prestato aiuto a salvarli o addirittura a chiedere l’aiuto dei Paesi europei, affinché questi ultimi trovino una sistemazione lavorativa. Ripeto il discorso continua ad essere molto semplificato.

“La demografia può cambiare gli equilibri economici globali: rischiano il declino Europa e Cina, a causa dell’invecchiamento della popolazione.

Sono destinate ad avanzare invece India e Africa, spinte dalla forza di una popolazione giovane e pronta al lavoro.

«Il quadro demografico d’insieme è quello di un declino della natalità nei Paesi più ricchi. La popolazione invecchia e la forza lavoro non cresce o comincia a ridursi, una tendenza che ha quale probabile conseguenza il rallentamento della crescita economica. I giovani sono portatori di innovazione e cambiamento», dice Giovanni Peri, docente di Economia e direttore del Global Migration Center alla University of California, Davis.

Inverno demografico
Come spiega Peri, le proiezioni elaborate dalle Nazioni Unite, entro il 2050, le persone di età superiore a 65 anni costituiranno quasi il 40% della popolazione in alcune parti dell’Europa e dell’Asia orientale: una quota di anziani quasi doppia rispetto alla Florida, il regno dei pensionati americani”.

Il Giappone ha preceduto tutti, ma lo stesso inesorabile destino toccherà presto a gran parte dell’Europa, Italia inclusa, e poi alla Corea del Sud, alla Gran Bretagna, per proseguire con l’Europa dell’Est e la Cina: un numero mai registrato in precedenza di persone in pensione dipenderà dal sostegno di un numero sempre più ridotto di persone ancora in età lavorativa”.

«Tutti questi cambiamenti non dovrebbero sorprendere nessuno. Ma lo fanno», spiega Mikko Myrskyla, direttore del Max Planck Institute for Demographic Research. «E i cambiamenti – aggiunge – ci trovano impreparati, non perché non li sappiamo prevedere, in realtà sappiamo benissimo che stanno arrivando, ma perché, dal punto di vista politico, comportano una reazione complessa».

Gli stessi esperti dell’Onu prevedono che gli standard di vita e molte conquiste del welfare che nei Paesi a reddito più elevato vengono ormai date per acquisite – pensioni, età pensionabile, sanità – dovranno essere riviste per diventare sostenibili. Così come andranno ripensate le politiche sui migranti.

Più vecchi
“Se un grande numero di giovani adulti non ha accesso al lavoro o all’istruzione, la stabilità viene minacciata. A questo si aggiungono, in Africa ma non solo, problemi mai superati legati a «corruzione, instabilità e guerre», dice ancora Giovanni Peri. Lo sviluppo di un’economia dipende inoltre dal capitale di partenza, dalle capacità di creare innovazione e tecnologia, dalle infrastrutture, dai collegamenti con i mercati globali.

Se preoccupa la quota di anziani da gestire in Giappone, Corea del Sud e Singapore o anche in Italia, che hanno livelli di reddito relativamente alti, altri Paesi come la Cina, il Vietnam sembrano avere iniziato un rischioso processo di invecchiamento senza avere prima raggiunto un benessere diffuso. «Potrebbero – dice Peri – non avere le strutture, la coesione sociale ed economica, per reggere una simile trasformazione demografica».

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Usa e Australia
Gli Stati Uniti e l’Australia potrebbero scampare al declino sfruttando i tassi di fertilità leggermente più alti rispetto all’Europa e soprattutto una maggiore capacità di accogliere e integrare nuovi migranti: sia negli Stati Uniti che in Australia, si prevede che poco meno del 24% della popolazione avrà 65 anni o più anni nel 2050, una percentuale molto più alta di oggi, ma inferiore a quella della maggior parte dei Paesi europei e dell’Asia orientale, che sarà del 30%.

«L’immigrazione – rimarca Peri – va vista attraverso le lenti di un effetto economico positivo, di opportunità e non di guerre culturali. La sfida è una immigrazione equilibrata, bilanciata tra diverse mansioni e qualifiche, e la sua gestione sostenibile». In questo gli Usa potrebbero ancora fare da riferimento: «Sono un Paese d’immigrazione da 200 anni. Per gli Stati Uniti – sottolinea l’esperto italiano – l’immigrazione fa parte dell’identità nazionale, il 16% della popolazione è nato all’estero. Anche in presenza di forze contrastanti, e di un 30% che si oppone, resta una importante corrente radicata nella società, nella politica e nel business che continua a considerare l’immigrazione come una componente cruciale di crescita e dinamismo».