Lavoro, il dramma dei giovani. I vescovi ai politici: Il sud esiste

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E meno male che c’è la Chiesa a ricordare all’opinione pubblica e, prima ancora, alla classe politica italiana, che giovani e Mezzogiorno sono le due vere emergenze da affrontare e risolvere per potersi, infine, parlare concretamente di crescita economica e di sviluppo. Emergenze, peraltro – a pensarci bene –  che sono anche due facce della stessa medaglia, laddove si consideri che la maggiore quota di giovani, peraltro fortemente scolarizzata, di un paese complessivamente vecchio qual è appunto il nostro, risiede al di qua del Garigliano.

Ma non è questo il punto, come peraltro ci ricorda la tragedia del giovane Michele, 30 anni, di Udine, un lavoro precario di grafico, che si è tolto la vita perché “il futuro è un disastro a cui non voglio assistere”, ha lasciato scritto. Un atto d’accusa forte che – osservo – nella settimana dedicata alle canzonette di San Remo, non ha trovato il giusto rilievo sui media. Neanche volendolo porre – in un accostamento che aborro, ma che fa audiance, lo ammetto – in controcanto al figlio del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, Giacomo, il quale, laurea alla Bocconi in tasca, dopo dodici anni ha lasciato un posto (ben retribuito, va da sé) alla Morgan Stanley per trasferirsi in un altro tempio della finanza internazionale.  

Dunque, meno male che c’è la Chiesa a ricordare con voce forte e chiara – come ha fatto monsignor Nunzio Galantino, segretario della Cei a margine dei lavori “Chiesa e lavoro”, che si sono svolti nei giorni scorsi a Napoli – che la questione è fondata. Di più: “Al governo nazionale e a quelli locali dico che bisogna prendere atto che il Sud esiste, che il Sud non è soltanto bisogno ma anche risorse e quando le risorse non vengono utilizzate c’è una doppia colpa. Bisogna sgombrare il campo da clientelismo, burocrazia e malavita organizzata”. E sempre a proposito di lavoro, in un’intervista al Mattino, il presidente della Cei Angelo Bagnasco, ha aggiunto: “La flessibilità è da rivedere, ai giovani va dato un lavoro stabile”.

Il convegno dei vescovi è capitato – si dà il caso – a ridosso di due altri importanti eventi complementari: la visita del commissario europeo per gli affari regionali, Corina Cretu, agli scavi di Pompei, sito che riassume – nel bene e nel male –  volti e contraddizioni del Sud; e la cessione da parte di Poste della Banca del Mezzogiorno a Invitalia. Un’operazione da 390 milioni di euro che – almeno nelle intenzioni del ministero dell’Economia, cui infine tutto si riconduce – conferisce all’agenzia per lo sviluppo una nuova mission: “La crescita in quei territori che sono rimasti indietro”, per dirla con le parole dell’ad Domenico Arcuri. Appunto.

Una banca, sembra di capire, che – riposta in soffitto lo scopo per il quale fu voluta dall’allora ministro Giulio Tremonti,  in grado cioè di rispondere al credit crunch per le aziende del Sud – ora dovrà servire soprattutto per usare i fondi comunitari. E a proposito, anzi, forse è bene ricordare che la Corine si è fatta anche latore della lettera con la quale l’Ue sblocca il finanziamento di 50 milioni di euro destinati ai progetti di sviluppo nelle regioni meridionali.

Sicché si torna inevitabilmente a parlare di Europa. Intanto perché il cancelliere tedesco, Angela Merkel, in vista delle elezioni interne e sulle voci dei rigurgiti nazionalisti di Marine Le Pen (si vota anche in Francia) ha improvvidamente parlato, in settimana, di una Europa a due velocità. Concetto che ha dovuto in qualche modo smentire o, meglio, puntualizzare, dopo un faccia a faccia con Mario Draghi. E poi perché, il giorno prima, appunto il presidente della Bce, parlando al Parlamento di Strasburgo, era stato estremamente chiaro in tema di euro: “Con la moneta unica abbiamo forgiato bond che sono sopravvissuti alla peggiore crisi economia dalla Seconda guerra mondiale”.

Ma c’è di più. L’ipotesi di un’uscita dalla moneta unica della Francia e, a ruota, inevitabilmente dell’Italia e dei paesi mediterranei comincia a spaventare la stessa Germania, anche alla luce del nuovo corso impresso da Donald Trump agli Usa, molto critico anche con Berlino. Sta di fatto che in questo clima le borse europee ne hanno risentito, eccome. È tornato a materializzarsi anche lo spettro dello spread (a 203 punti a inizio settimana). “Lo spread è un termometro della tensione”, ha commentato l’economista Giacomo Vaciago. “Quando c’è un problema, il vecchio caro spread lo misura. Sono saliti un po’ tutti, quello francese più del nostro. Ma il punto è un altro: perché lo spread cresce? Perché ci sono problemi irrisolti in Europa, a partire dal sistema bancario e dalle politiche fiscali. E il primo è la carenza di visione strategica complessiva”.

Ça va sans dire.