L’Aida torna al teatro San Carlo: qui 150 anni fa ebbe, dopo la Scala, il più grande successo europeo

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Photo ©Michele Crosera

Torna in scena al Teatro di San Carlo dal 15 al 26 febbraio 2022 Aida di Giuseppe Verdi, terzo titolo operistico della Stagione 2021/2022, come ideale omaggio al 150° anniversario dalla prima, avvenuta al Cairo nel 1871, celebrato in tutta Italia.
Proprio al San Carlo, dopo la prima italiana alla Scala, Aida riscosse il più grande successo europeo.
L’opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni, è proposta in una storica produzione firmata da Mauro Bolognini, ripresa da Bepi Morassi. Le scene sono di Mario Ceroli e i costumi di Aldo Buti messi a disposizione dall’Archivio storico Cerratelli di Pisa. L’allestimento è del Teatro La Fenice di Venezia.
A dirigere Orchestra e Coro del Massimo napoletano sarà Michelangelo Mazza, al suo esordio al Lirico di Napoli e alla guida di un cast vocale che vede il ritorno al San Carlo di Anna Netrebko e Yusif Eyvazov nei ruoli di Aida e Radamès (nelle recite del 15, 18 e 21 febbraio). Accanto a loro nei ruoli principali rispettivamente Liudmyla Monastyrska, al suo esordio al San Carlo (nelle recite del 17, 20, 23, 26 febbraio) e Stefano La Colla (nelle recite del 17, 20, 23, 26 febbraio).
Amneris sarà interpretata da Ekaterina Gubanova (impegnata il 15, 18, 21 e 26 febbraio) e Agnieszka Rehlis, anche il suo un debutto sul palcoscenico del Massimo napoletano (17, 20, 23 febbraio). Franco Vassallo sarà Amonastro e Nicolas Testè Ramfis mentre Mattia Denti vestirà i panni del Re d’Egitto.
Completano il cast Desirée Migliaccio (Una sacerdotessa) e Riccardo Rados (Un messaggero). Maestro del Coro José Luis Basso. Il disegno luci è di Fabio Barettin (ripreso da Andrea Benetello), le coreografie di Giovanni Di Cicco saranno interpretate dal Balletto del Teatro di San Carlo diretto da Clotilde Vayer.

in foto Anna Netrebko

Guida all’ascolto  (dal programma di sala di Aida)
di Alessandro Roccatagliati*

Creare e porre in scena una nuova opera in musica, da quando il genere è nato, è sempre stato lavoro di un insieme di persone, di molte intelligenze. Imprescindibile e spesso (non sempre) primeggiante il compositore, decisivo il letterato che scrive materialmente il dramma, sono però di norma altrettanto rilevanti i cantanti, gli scenografi, gli strumentisti e il dominus dell’esecuzione musicale che coordina il tutto. Aida fu invece senz’altro l’opera in cui di più, nell’intera carriera di Verdi, fu lui stesso in prima persona a determinare e controllare tutti quei differenti passaggi di realizzazione, e nella maniera più stretta. Spalleggiato dal suo imprenditore di riferimento che gli dava carta bianca – l’editore Giulio Ricordi – curò o guidò ogni fase della creazione: dalla messa a punto della sceneggiatura di base fino ai gesti e ai movimenti sul palcoscenico (nell’autentica “nuova prima” alla quale sovraintese: Milano, La Scala, 1872), passando via via per abbozzo dei dialoghi in prosa, forma e rifinitura musicalmente orientate della verseggiatura (pilotò ferreamente il librettista Ghislanzoni, uno stipendiato di Ricordi stesso), ovviamente stesura vocale e orchestrale, scelta di scenografo, costumi e cantanti, ecc. ecc. Verdi in Aida, insomma, fu “autore totale” nel senso più ampio concepibile allora in Italia.

In ciò l’elemento “antico Egitto” giocò un ruolo fondamentale, in ogni fase. Già agli inizi la molla decisiva nel fargli abbracciare il progetto fu la lettura del canovaccio del melodramma che gli giungeva dall’egittologo Auguste Mariette tramite Camille Du Locle, già ricolmo di tantissime descrizioni visive “autentiche” e particolareggiate (di edifici, paesaggi, abbigliamenti, oggetti, riti). Quando infine poi l’opera fu messa in scena, tutto quell’apparato visivo d’ispirazione archeologica il musicista volle fissarlo ufficialmente – e per un’opera italiana era la prima volta – in una Disposizione scenica pubblicata a stampa e concepita come guida auspicabilmente vincolante per le messinscene future. Non stupisce perciò che la cifra visiva originaria e antiquaria dell’opera abbia da sempre mantenuto la sua forza caratterizzante. Tra le tante Aida che vengono costantemente allestite nel mondo (mediamente più di 50 diverse all’anno, negli ultimi quindici), un gran numero ancor oggi non rinuncia a quel preciso “colore locale” storico-scenografico che sta inscritto, al pari delle imponenti scene di massa e di ballo previste in partitura, nel suo stesso DNA di grand-opéra all’italiana.

Alla pari con le suggestioni da egizia grandiosità, però, a colpire il musicista drammaturgo fu da subito anche ben altro. Significativo il parallelismo contenuto nella sua primissima reazione alla lettura dell’originario scenario (in francese): «È ben fatto; è splendido di mise en scène e vi sono due o tre situazioni, se non nuovissime, certamente molto belle». Dire «situazioni … belle», nel gergo verdiano, significava essere stato immediatamente toccato nell’immaginazione da precisi momenti della vicenda in cui si venivano ad intrecciare, e poi stringere sempre più, i nodi del confronto tra i personaggi. Un’immaginazione che peraltro, essendo quella di un “teatrante in musica”, già plausibilmente veniva a far coincidere l’articolazione di queste «situazioni», appena conosciute e giusto abbozzate, con un embrionale loro ripensamento in forme compositive anch’esse almeno sommariamente articolate: vale a dire, dati gli stilemi del tempo, come prime idee di “numeri” musicali (arie, duetti, terzetti, scene d’insieme).

Non è dunque un caso che i cambiamenti rispetto all’originale immediatamente concepiti e concordati con l’intermediario Du Locle sceso appositamente a Sant’Agata da Parigi – siamo a giugno 1870, vigilia della guerra franco-prussiana che fece saltare le scadenze d’andata in scena d’inizi 1871 immaginate in un primo momento – riguardassero anzitutto il profilo generale di talune di queste «situazioni» nevralgiche: Verdi volle subito modificata, ad esempio, la sequenza delle azioni nel quadro d’inizio primo atto; scelse d’avere due quadri anziché uno per il second’atto (in Mariette lo scontro Amneris-Aida avveniva a margine del “trionfo di Radamès” e non aveva il rilievo che gli apporta il suo svolgersi nella “sala nell’appartamento di Amneris”); spostò “sulle rive del Nilo”, da un “giardino del palazzo”, l’intero atto III; e subito ebbe l’intuizione di dividere in due, tra sotto e sopra la pietra tombale, l’ultimo quadro del quarto. Si fissò e rifinì il tutto in alcune ristesure in prosa di questo cosiddetto “programma”, sia in francese che in italiano; a quest’ultime mise mano Verdi stesso, fino a che ne venne fuori un testo completo di dialoghi, tratteggiati in modo tale che il musicista presentò a Ricordi quello stadio d’elaborazione con queste parole: «Bisogna ora pensare al libretto, o, per meglio dire, a fare i versi, perché ormai non abbisognano che i versi. Ghislanzoni può egli e vuole farmi questo lavoro? Non è un lavoro originale, spiegatelo bene; si tratta solo di fare i versi».

Ebbene, a chiunque voglia davvero penetrare la teatralità pensata per Aida dal suo creatore va dato un fondamentale consiglio: leggersi e rileggersi, scavandone i significati, le lettere che Verdi scrisse a Ghislanzoni e in cui gli chiese di calibrare appunto quei versi così come gli servivano per poter realizzare in musica gli effetti drammatici cui mirava. E ciò in particolare nei brani a due e tre personaggi degli atti III e IV, oltreché nel già citato confronto rivelatore tra principessa e schiava d’inizio atto II. (L’edizione critica completa del fondamentale Carteggio tra maestro e poeta è in cantiere avanzato, e uscirà per i tipi dell’Istituto Nazionale di Studi Verdiani).

Ciò rende evidente un elemento, che talvolta viene offuscato dalla magnificente magniloquenza di quest’opera tanto nota per le sue scene di massa: a Verdi premeva di essa, in particolare, la dimensione intima, sottile, vibratile, quasi sismografica – nei suoi potenti soprassalti emotivo-sonori – del dramma tutto musicale che si dipana tra i quattro personaggi principali. La penetrante sottigliezza dell’invenzione musicale che s’andava prefigurando, destinata a quei vari punti scenici, è quasi come se la vedessimo rispecchiata in anticipo nella miriade di migliorie piccole e grandi richieste a Ghislanzoni da Verdi. Il musicista riforgiò infatti a voler suo pressoché tutte le dimensioni del testo poetico. Si andò dalla forma dei “numeri” (discussero a lungo sull’opportunità di inserire o meno “cabalette”) ai metri poetici (le accuse contro Radamès trasformate da ottonari a decasillabi) alle scansioni interne delle strofe (come quando riscrisse egli stesso in versi rozzi l’intera scena finale fra Radamès-Aida, pensando dapprima a due strofe iniziali omologhe per i personaggi ma già il giorno dopo riabbozzandone polimetrica la prima onde favorire «un cantabile un po’ strano di Radamès»). Ma anche dal tono drammatico di taluni passaggi (come al punto culminante del duetto atto II, ove Verdi dettò in prosa a Ghislanzoni le ineleganti ma potentissime ripetizioni – “Tu l’ami? Ma l’amo anch’io, intendi?” – con cui Amneris, dopo tanta affettazione e inganno, si palesa rivale in amore alla propria schiava) agli spazi che volle aprire alla cosiddetta «parola scenica», ossia alla «parola che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione», e diviene quindi capace di dar «campo ad azione per l’attore» (si pensi a come pretese di ridurre all’unico, potente verso “Sacerdote io resto a te”, un appena più prolisso distico con cui il poeta aveva chiuso l’atto III).

Se possibile ancor più impressionanti e chiarificatrici, tuttavia, sono talune frasi relative a momenti puntuali in cui Verdi “vede” teatralmente i personaggi appena prima di dotarli di musica. Per lui, ad esempio, «dopo che Amonasro ha detto “Sei la schiava dei faraoni” … Aida non può che parlare a frasi spezzate». Così pure, verso la fine dello stesso atto III, «quando Amonasro dice … “il Re di Etiopia”, qui Radamès deve tenere ed occupare quasi solo la scena con parole strane, pazze, esaltatissime». Per Amneris, nel duetto d’inizio atto IV, il compositore chiese invece versi musicabili in “cantabile” pieno, sebbene potesse apparire «strana una melodia su parole che sembrano dette da un avvocato. Ma sotto queste parole d’avvocato [“Già i sacerdoti adunansi”], vi è un cuore di donna ardente d’amore e disperata». Ebbene, di simili finezze è pieno l’immaginario drammaturgico di Verdi, per le scene chiave di Aida. E, ciò che più conta, tutto questo seppe trasfonderlo in invenzione musicale e canora.

Ora, comprendere a questi livelli di profondità il dramma musicale inscenato in Aida non obbliga, di per sé, a “vedere”. Non servono le scenografie faraoniche, i costumi archeologicamente ispirati, le schiere marcianti degli eserciti vincitori o sconfitti, le deità egizie o le palme portate in processione. Né tantomeno giovano allestimenti pesantemente innovativi che, gettata a mare tutta quanta la “egizianità” considerandola ciarpame, mirano magari a costruire un intero sistema concettualizzato di “narrazione” visiva ex novo che vuole però ugualmente imporsi con grandiosità e potenza comparabili alla creazione scenografica originaria (come all’Opéra Bastille nel 2013, regista Olivier Py), per di più talvolta in versione kolossal all’aperto (Seebühne, Bregenz, 2009, Graham Vick). A cogliere quanto davvero serve e tocca l’animo può bastare, in realtà, l’ascolto: attento, recettivo, sensibile, consapevole, concentrato; e persin favorito, se si vuole, dalle condizioni che la terribile prima metà 2020 va imponendo in questi mesi alle rappresentazioni di tanti teatri.

Quanto alle azioni interiori/esteriori “fattesi musica” dei protagonisti, una siffatta sintonizzazione anche solo auditiva, oltre che per le pagine celebri già evocate con le citazioni precedenti, basterebbe raccomandarla per altri momenti in cui Verdi elabora altri moduli formali consueti del melodramma italiano per ottenerne effetti nuovissimi: si pensi solo al turbinoso “a tre” di sospetti/paure reciproche tra Radamès, Aida e Amneris al loro primo incontro, o al monologo in recitativo accompagnato lancinante di “Ritorna vincitor”, o alla trasformazione d’una cabaletta in tellurica invettiva antisacerdotale a fine aria Amneris d’inizio atto IV. Ma un’analoga immedesimazione potrà essere possibile, paradossalmente, anche per quegli aspetti d’ambiente e di contesto in cui i personaggi si muovono. A un patto: che di quell’“Interno del Tempio di Vulcano”, quella “porta trionfale” di Tebe, quelle “rive del Nilo”, quella Etiopia “Patria mia” evocata e sognata si sappiano cogliere i riverberi nei vari ordini di coloriti sonori esotici approntati da Verdi. Tutti costruiti musicalmente con mezzi semplici (timbri e figurazioni di flauti e oboi, movimenti di danza sinuosi, ma poi anche ottoni e percussioni là dove serve) e nondimeno estremamente scaltriti ed efficaci. In una mise en scène solo evocabile, in suoni. Ma pur sempre quella che aveva subito suggestionato Verdi: come fondo fascinoso della vicenda umana senza tempo immortalata dal suo dramma musicale. 

*Direttore del Comitato Scientifico dell’Istituto Nazionale di Studi Verdiani di Parma
e Professore Ordinario di Storia della Musica all’Università di Ferrara

Photo ©Michele Crosera
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