La Turchia e il Qatar in Libia

In foto Khalifa Haftar

La guerra in Libia è lo scontro per il petrolio libico e per il potere mediterraneo.
Ma, in tutti e due i casi, i contendenti veri e credibili sono solo i Paesi arabi e islamici.
Se l’Italia può ancora fare qualcosa, il suo influsso lo può esercitare, ma con grande attenzione, nell’equilibrio dei suoi molteplici e forti rapporti con i Paesi OPEC e con Israele.
L’occidente ha perso la sua battaglia in Libia già dal momento della fine del colonnello Muammar Al Minyar el Gheddafi.
Il mondo arabo e islamico, al quale si aggiungerà presto l’Iran, che giocherà una sua autonoma partita, acquisirà tutti i potenziali positivi della Libia, ovvero il petrolio, poi la posizione strategica nel Maghreb, magari per la futura destabilizzazione islamista dell’area (e, magari, di parte dell’Europa meridionale) e infine scaricherà sull’occidente europeo le crisi derivanti dalla globalizzazione islamica della Libia.
I migranti, ovviamente, le crisi umanitarie, la difficoltà di porre in contatto l’Europa e la NATO con l’Africa subsahariana, le oscillazioni, infine, del prezzo del petrolio.
Tutto ci sarà volto addosso.
Ma vediamo meglio cosa sta accadendo, per poi analizzare il quadrante libico dalla parte che lo domina, l’Islam turco, qatarino, saudita, egiziano, magari tra poco iraniano.
E’ ormai poco interessante studiare la Libia dalla parte dei perdenti, l’occidente e l’Unione Europea tutta.
D’altra parte, “i perversi portano la corruzione sulla terra, Questi sono i perdenti!” (sura al Baqarah, v. 27).
Vediamo, intanto, il panorama delle milizie, abituate a cambiare casacca alla velocità della luce.
Haftar, come è ben noto è sostenuto, fin dal 2014, dall’Esercito Nazionale Libico.
Secondo gli ultimi dati, esso avrebbe a disposizione circa 25.000 uomini.
Dovrebbe essere, il LNA di Haftar, la sommatoria di buona parte delle forze fedeli a Gheddafi e di una maggioranza delle forze del Saiqa, ovvero le forze speciali (3500 elementi) che, su ordine del colonnello, stanarono gran parte dei jihadisti da Bengazi e dalle aree vicine.
Ma, evidentemente, non bastò.
Poi, nella falange di Haftar, ci sono anche i salafiti madkhaliti, molto vicini all’Arabia Saudita.
Nascono dalla tradizione stabilita dallo Shaik Rabi’i al Madkhali, un sapiente coranico saudita che era tollerato, con i suoi piccoli gruppi, anche dallo stesso Gheddafi, che aveva pensato, soprattutto attraverso suo figlio Saif Al-Islam, di sedurre una parte dei jihadisti per legarli al suo regime e, magari, utilizzarli in seguito.
Come fanno tutti i paesi arabi e islamici dell’OPEC, comunque. Ogni Islam nazionale ha il suo jihad di servizio.
I Madkhali oggi, sostengono soprattutto Haftar, ma sono presenti anche nell’area tripolina e vengono percepiti dalla popolazione come “uomini puri” e capaci di sostegno ai poveri.
Come in tutto il nuovo Medio Oriente della globalizzazione occidentale (fallita) e di quella jihadista (ancora in corso) chi sostiene i poveri, che sono sempre in maggior numero ogni giorno che passa, ha la chiave della rappresentanza politica.
Sono stati utili anche per l’Isis, i Madkhali, ma la loro fisionomia teologica e politica è del tutto particolare.
E sono presenti sia nel GNA di Al Serraj che nelle forze dell’LNA di Khalifa Haftar.
Tra le varie organizzazioni militari, ci sono anche le kabile ciadiane e sudanesi. Che ora lavorano soprattutto per Haftar.
Poi le guardie, ma sarebbe bene utilizzare altre terminologie, dei pozzi petroliferi.
Che spesso hanno una loro autonomia ma, oggi, servono anch’esse soprattutto Haftar.
Nel caso di Al Serraj, sono le FF.AA. del Governo di Accordo Nazionale di Tripoli che comandano davvero sul campo, mentre Al Serraj dipende, anche per la sua sicurezza personale, da forze che aspettano solo il momento per presentargli il conto.
E’ ovvio che scegliere tra un nemico aperto e un amico debole è cosa difficile, che non è certo nelle corde della UE, che non conosce i detti del Machiavelli, e qui ricordo un vecchio detto poco meditato anche se famosissimo: “sendo adunque uno principe necessitato saper usare bene la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione, perché il lione non si difende bene da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a’ conoscere i lacci, e lione a’ sbigottire ‘e lupi”.
Gli europei, già li vedo, rimarranno a litigare sulle spoglie del loro fallimento globale nel Maghreb, mentre gli Usa sono sempre più lontani e disinteressati; e tutte le minacce non militari gli verranno addosso, agli europei, senza poterle parare: la migrazione di massa, il petrolio sempre più difficile, l’impossibilità di afferire all’Africa Subsahariana.
Che è, quest’area, la chiave della “perla” finale e indispensabile della globalizzazione, l’Africa, che sarà preda di guerra della Cina, del jihad di varie specie, poi ancora un pochino degli Usa, dell’India e, infine, della Federazione Russa.
Al Serraj può anche dare un po’ di fiducia alle milizie di Zintan, ora divise tra il GNA di Tripoli e l’esercito di Haftar.
Il gruppo delle milizie di Misurata vale, però, quasi 40.000 elementi, che combattono più che per Al Serraj per la loro storica autonomia di città-stato.
E qui arriva la divisione geopolitica degli sponsor, Arabia Saudita, Egitto, Emirati e altri per Haftar, ma dall’altra parte ci sono la Turchia e il Qatar.
La Parte democratica e pluralista, secondo la narrazione dell’ONU e della UE. Vedremo quanto valida.
Entrambi i paesi, Turchia e Qatar, sono legatissimi alla Fratellanza Musulmana, ma occorre evitare che lo scontro si delinei, alla fine tra madkhalisti sauditi legati ad Haftar e l’Ikhwan, la Fratellanza Musulmana, che è vista come del tutto eversiva dai sauditi e dal sunnismo della penisola arabica.
Osama Bin Laden, da studente, fu radicalizzato da un suo professore universitario proprio dell’Ikhwan, appartenenza che in Arabia Saudita porta diritta alla forca.
L’Italia cosa ha fatto? Nulla, ovviamente.
Silvio Berlusconi è stato costretto, da altri, a mettersi dalla parte delle famose democrazie che eliminavano il “tiranno”, che è stato per noi una banca di affari sempre aperta e un amico fidato del petrolio nazionale.
Senza la tenda del colonnello della Sirte, l’Italia non avrebbe superato il disastro economico dell’inizio degli anni ’70, che era peraltro una delle grandi scommesse strategiche dei nostri alleati-avversari.
Dopo Berlusconi, forse impaurito da alcune minacce di attacchi aerei “casuali” sui nostri pozzi, arrivò Mario Monti, che di politica estera ne capiva quanto uno scolaretto delle elementari.
Poi fu il momento di Enrico Letta, che si occupò solo di questioni umanitarie, e arrivò poi, dopo il pisano Letta, un altro toscano, ma piuttosto maleducato, Matteo Renzi.
Gentiloni, ministro degli Esteri di Renzi disse, in quella fase che “L’Italia era pronta a combattere”. Non lo disse per caso.
Lo stato islamico aveva occupato la Sirte e, tra l’ENI e altri investimenti italiani nell’area, si trattava di almeno cinque miliardi annui.
L’allora segretario di Stato Usa John Kerry incontrò Renzi e gli disse chiaramente che gli Usa avrebbero garantito alle FF.AA. italiane appoggio navale e logistico, droni, l’appoggio di tutte le basi AFRICOM statunitensi e una piccola forza militare autonoma da attacco rapido.
L’idea degli Usa, che parlavano, allora, con il miglior paese europeo che conosca la Libia, ovvero noi, era quella di prendere militarmente tutti i porti libici, anche con la cooperazione delle varie milizie sostenute, in tutti i sensi, dall’ENI. E, poi, anche le maggiori città.
Matteo Renzi non dette il via libera a questa operazione.
Oggi, il governo giallo-verde ha ereditato la stessa situazione ma non ha fatto nulla, a parte la famosa conferenza di Palermo che ha lasciato, come abbiamo detto e come era facile immaginare, il tempo che ha trovato.
Certo, non è nemmeno utile un ministro degli Esteri che passa la vita a accreditarsi alla UE, ma, ne siamo certi, non arriverà nemmeno lì.
Conte, il premier, ha poi di fatto congelato l’operazione in Libia, promessa ancora una volta nell’incontro con Trump il 30 luglio 2018.
Intanto, anche grazie alle follie strategiche italiane, la guerra in Libia sigilla tutta l’Africa.
Poi essa segna il fallimento, come se ce ne fosse ancora bisogno, della UE e delle chiacchiere a vuoto dell’ONU, che sceglie il più debole e lo mette perfino in condizione di fallire.
Già Voltaire, nella sua voce su “le leggi” ne suo Dizionario Filosofico, metteva in guardia contro le anime belle o quelli che hanno idee morali fisse e inderogabili.
Quindi, l’unica operazione possibile non è oggi una conferenza tra gli aranci e le zagare, ma un accordo, mutuato credibilmente dall’Italia, che metta ordine tra gli interessi di Turchia, Qatar, Egitto, Arabia Saudita, perfino Iran e, magari, anche, perfino, Israele, che potrebbe ritagliarsi un suo piccolo regno nel Sud, verso l’Africa Subsahariana. Che gli interessa da morire.
L’UE impotente e poi gli Usa, che hanno detto a tutti di fregarsene della Libia, potrebbero far parte di una nuova e efficace Forza di Interposizione, ma non con le regole ONU, che valgono per gli asili infantili, tra le varie aree di interesse.
Vediamo ora gli equilibri infra-arabi e islamici in Libia: Haftar ha posto un blocco sui voli commerciali tra la Turchia e la Libia, alla fine del giugno 2019, per evitare passaggi di armi, ma non si deve nemmeno dimenticare la gaffe dei Servizi turchi, dei quali alcuni membri sono stati catturati perfino dalle forze egiziane, mentre sostenevano, con denaro e armi, l’Isis e gli altri jihadisti nella penisola del Sinai.
Per non parlare nemmeno delle autorità greche, che hanno bloccato una nave commerciale turca, nel 2015, che portava armi e sostegno ai jihadisti presenti nella parte nord del Libano.
Non parliamo ancora del sostegno turco ai jihadisti operanti nel nord e nell’ovest della Siria. Qui ci vorrebbe un tomo di mille pagine.
Ma, nel dicembre 2018, i servizi libici di Al Serraj hanno catturato due navi, con un notevole carico di armi, nel porto di Misurata, e poi anche nel porto di Al-Khoms, cento chilometri ad est di Tripoli.
Tutte armi turche, senza alcun dubbio, ma ciò ci fa pensare che il segretario generale della NATO non abbia ancora trovato il modo di parlarne con il premier di Ankara, visto che la Turchia è la seconda maggior forza armata dell’Alleanza Atlantica.
Il gennaio 2019, comunque, i servizi libici hanno scoperto altri carichi navali di armi turche, già arrivati nel porto di Misurata.
La Turchia e il Qatar portano armi ai loro gruppi di riferimento in Libia, ma anche per le linee di terra, attraverso il confine sudanese visto, peraltro, il particolare rapporto che lega il Qatar alla dirigenza del Sudan.
Alcuni documenti trovati dagli Usa ad Abbottabad, durante l’eliminazione di Osama Bin Laden, lo ricordiamo, fanno riferimento al fatto che i gruppi jihadisti libici avevano, già allora, nella Turchia il loro punto di riferimento organizzativo e operativo, e questo accadeva fin dall’inizio degli anni 2000.
Abd-El Hakim Belhai, ovvero Abi Abdallah Al Sadeq, l’uomo di Al Qa’eda, allora, in Libia, aveva anche iniziato i contatti con l’Iran, al fine di organizzare operazioni militari contro Gheddafi.
Nel gennaio 2017 Ansar al Sharia, sempre un gruppo jihadista legato ad Al Qa’eda, ha reso noto che il suo fondatore, Mohammed Al Zahawi, era morto in un ospedale turco.
Le stazioni TV organizzate da Turchia e Qatar e dirette verso la Libia sono, poi, numerose, ma tutte protette direttamente dai turchi: Al Ra’ed al Islamiyya, Libya Al-Ahrar, Al Tanassah, Libya Panorama.
Obiettivo primario del leader turco in queste operazioni: ricostruire l’Impero Ottomano, estraneo e spesso opposto agli altri “imperi” petroliferi e finanziari che si vanno costituendo nel mondo arabo-islamico.
Poi, ristabilire anche il vecchio “Patto Nazionale” del 1923, il Misak-i-Milli, che espande, anche all’epoca del “laico” Ataturk, tutti i confini del mondo turco: la Siria del Nord, parti del Libano, alcune aree dell’Iran e perfino del Kazakhistan e, ritorniamo alle memorie orride dei “giovani turchi”, dell’Armenia.
Il Qatar ha firmato, nel gennaio 2019, ma con un documento di base che risaliva all’aprile 2016, un patto militare con la Turchia che consente lo stazionamento di 4000 soldati turchi nell’Emirato, e prevede operazioni congiunte tra le due Forze Armate.
Per non parlare dell’isola di Souakin verso le coste del Sudan, da poco con navi militari turche, poi la presenza militare significativa di Ankara in Somalia, il forte sostegno ad Hamas nella Striscia di Gaza e l’aiuto, per il Jihad Islamico, tra Gerusalemme e i Territori, un sostegno in parte mantenuto in collaborazione con l’Iran.
Che avrà, se starà zitto in Palestina e ai confini di Israele, una quota di potere in Libia.
Le navi commerciali di Teheran sono già, peraltro, passate sia da Tripoli che da Bengazi.
Il Qatar ha finanziato le milizie jihadiste libiche con una massa di denaro rilevantissima: dalla “rivoluzione” del 2011, si tratterebbe di ben 750 milioni di Euro, ma l’Emirato, secondo Wikileaks, avrebbe anche rubato il sistema difensivo militare integrato della Libia gheddafiana per soli 50 milioni.
Gli occidentali che volevano la democrazia, o qualsiasi altra cosa si definisca come tale, hanno operato fin dall’inizio, coscienti o meno, per il jihad.
Belhaj, di cui abbiamo già parlato, possiede una linea aerea, in Libia, Wings Airlines, oltre a una sua rete TV, fuori dal normale sistema qatariota-turco.
Jadhran, già a capo delle milizie a difesa dei pozzi petroliferi, ha trafficato in petrolio e, poi, ha sostenuto un gruppo di circa 800 “ribelli”, per usare un termine caro agli occidentali, capeggiati da Timane Erdimi.
La Fratellanza Musulmana è, ancora oggi, capeggiata in Libia da Ali Al Sallabi, legato all’Emiro del Qatar e, naturalmente, a Yussuf Al-Qaradawi, sostenitore della Fratellanza dalla rete di Al Jazeera.
Il portatore di ordini per il Qatar in Libia è Abdelaziz Al-Siwi, altro dirigente della Fratellanza Musulmana, figura costante nelle trasmissioni di Al Tanassah, ma poi vi è anche Sadeq Gariani, che è comunque fortemente anti-Haftar.
Ricordiamo qui che l’Ikhwan è ben presente anche nel governo di Accordo Nazionale di Al Serraj, con il “Partito della Giustizia e della Ricostruzione” che ha criticato gli incontri di Parigi tra Al Serraj e Haftar.
E Serraj ha un ministro degli esteri della Fratellanza che, come dicono alcuni analisti, “dà ordini al governo italiano”.
Ma l’emirato di Doha ha un oggettivo “braccio armato” in Libia, la Brigata Rafallah, che si collega anche alla Brigata per la Difesa di Bengazi, entrambe collegate ad Ansar al Sharia e dirette da Ismail Al Sallabi, fratello di Ali Al Sallabi.
Per la rete turca, oltre a quello che abbiamo detto ci sono Salah Badi, un uomo di Misurata capo della Brigata Sumud.
Quindi: Turchia e Qatar vogliono la Libia, Haftar e i suoi sostenitori anche, vedremo chi vince sul terreno, ma certamente non vinceranno mai gli europei.
Né, tantomeno, gli italiani.
Ma nemmeno i francesi, che hanno generato il caos in Libia contro Gheddafi per portarci via l’ENI e per distruggere un sostegno finanziario all’Italia che Dio solo sa quanto non ci avrebbe fatto comodo oggi.
Obiettivo? A parte la Turchia, la raccolta del petrolio libico per sostenere la propria produzione e conquistare fette maggiori di vendite in ambito OPEC.