La poesia di un romanzo tra certezze e incertezze

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di Piero Antonio Toma

Avvincente questo travaglio, di una bellezza lirica, onirica e sdrucciolevole come certe parole o certi dormiveglia, vigilie di sonni profondi ed è in queste pagine che si consuma la sinapsi dalla poesia ad una prosa che induce il lettore a riguardare e a riguardarsi ad ogni parola a ad ogni frase. In alcuni libri, specialmente quelli polizieschi o noir, la trama ha la prevalenza su tutto, tra azioni e colpi di scena, ma non quest’opera di Sergio Saggese, dove il cantico delle parole assoggetta il racconto alle proprie profezie. Qui l’autore che si confessa scrittore, alla fine ammette di smettere per distanziarsi “da questa narrativa ormai mercificata”. Per lui “parlare era uno scrivere con le labbra”. E poi? “Fare come il lettore: accettare il patto di sospensione dell’incredulità, e cioè far finta di credere a ciò che si legge”. Per il resto è tutto frutto di fantasia. Racconta prevalentemente di un altro da sé e di una sua sensazione orfana sempre più coinvolgente e che è il mantra di tutto il libro. Ricoverato in ospedale per in intervento all’occhio sinistro, sente nelle mani di un’anziana infermiera il richiamo della madre che non ha conosciuto essendo vissuto in una famiglia di genitori adottivi. Un’ assenza-presenza quella materna che diventa ossessiva fino a quando, lasciata la scrittura, ma solo per far fronte alla trama, e vivendo di diversi mestieri come l’accordatore di pianoforti o il pasticciere, con amici come Tommaso e Vito, arriva dopo pagine di incontri anche in casa dell’infermiera che lo accoglie insieme col compagno Matteo. Ma solo dopo la morte di lei il protagonista atterra su una verità sconvolgente. E’ il giro di boa nel libro. Un vis-à-vis tanto traumatico che gli sommuove l’equilibrio psichico perché è arduo digerire quelle rivelazioni che finiscono per fomentare sempre un dedalo di nuovi dubbi e interrogativi, di rinunce, di sospensione e di rinvii, fino a quando egli si acquieta fra un sì e un no di pari intensità. Certe volte l’esistenza che “non è fatta di punti ma di virgole” ti costringe ad un nuovo percorso, “perchè non cambiare sarebbe stato non vivere”. S’inciampa anche l’amore con Nanni, la donna della sua vita (“guardarla era un viaggio” perché “permeava di immaginazione tutte le cose”), che poi diventerà la Laura di un altro:“il dolore dà il meglio di sé quando ripensa alla felicità e la felicità dà il meglio di sé quando ripensa al dolore”. Come diceva Camus “io volevo essere per lei l’altra metà mancante”. ” Il paradosso della nostra esistenza? “Soltanto chi crede veramente nell’Amore, sa che non esiste”.
E’ lungo questa narrazione profondamente umana, ma sottile per il lettore, che lo stile del libro sguscia di frase in frase, avanzando quasi sempre tra paragoni fantastici e inusuali e ricorrendo a termini assolutamente fuori squadra, ma sempre identitari nel loro significato: da afforcare a barbotine, da asserpolarsi a nimbata, da capezzagna a botolo, da diatesi a strigili, da clepsamia ad aggricciare, da gnaulare a sfrigolare, da tempura a scaracchiare. Una raccomandazione finale: la parola più bella del vocabolario è “forse”. Infatti “è assai meglio essere pronti ai forse che tardivi alle certezze”. ”Non sempre poi la certezza coincide con la verità”.

L’altra madre, Sergio Saggese, Edizioni vulcaniche, pag. 174, € 15