La performance del ministro Santanchè tra Shakespeare e la Corrida

in foto Daniela Santanchè

William Shakespeare, nella sua tragedia Giulio Cesare, fa aprire l’orazione funebre di Antonio con un “Siamo qui per…”. Ne segue un esercizio di retorica ancora oggi ritenuto un must. Sarebbe stato certamente interessante conoscere il pensiero di Leonardo Sciascia in merito a quanto sta accadendo all’attività politica del Paese, ancora più accentuato in questi primi giorni di luglio. Si deve prendere atto che, seguendo un copione non scritto, mercoledì ultimo scorso il Governo ha deliberato la proroga a novembre del termine per la ratifica del MES, vale a dire a autunno inoltrato e per ora sembra che non siano venute fuori da ogni dove particolari manifestazioni, né positive, né negative. Il casus belli di quella riunione è stato il “pro domo sua”- è pressoché impossibile definire anche con approssimazione quanto ha detto – della Ministro Santanchè in Senato. Ebbene si, la virago testé citata, era stata convocata in quella sezione del Parlamento per riferire in merito alle rivelazioni sul suo operato da privata cittadina fornite dal conduttore di uno dei tanti contenitori televisivi, questa volta di stato, via etere. Uno di quelli che, figlio d’arte, seppure adottivo, di chi lo ha preceduto in quel posto, ritiene di aver ricevuto incarico da molto in alto di dover solo distruggere, mai proporre alternative. Senza dubbio si tratta di situazioni almeno in odore di non essere in linea con il modo comune di operare in un contesto sociale che possa essere definito civile. La Signora Ministro, per la precisione del turismo, non si sa fino a che punto inconsciamente, ha iniziato, come fece Antonio nell’ immaginazione di Shakespeare, con un “sono qui per…”. Tale esordio la dice lunga sul modo in cui si è proposta l’ imprenditrice ministro nell’ operazione show di illustrare in maniera veritiera come sono andate le disavventure che hanno portato al dissesto le sue attività imprenditoriali. Tale suo comportamento sarebbe stato credibile, mai giustificabile, se non si fosse aggiunta una di quelle cellule della magistratura convinta che a legiferare, per ora non ufficialmente, sia essa stessa e non il governo. È successo cosi che, al momento della sua difesa, l’ imputata di quell’improbabile tribunale che ha ricordato molto da vicino la trasmissione televisiva di anni addietro ” La Corrida”, è stata informata che nei suoi confronti il Tribunale di Milano aveva appena emesso un avviso di reato per falso in bilancio e bancarotta fraudolenta. Tutto ciò in segreto e dopo un lasso di tempo paragonabile a quello degli ultimi episodi descritti. Era accaduto così che i componenti di quella corte giustiziera meneghina si sia comportata come un branco di orsi alla fine del letargo: hanno cercato di recuperare il tempo perso e quindi hanno emesso un provvedimento che prima di tutti mettesse al sicuro loro stessi. È vero che, chi è sottoposto a una procedura giudiziaria, è innocente fin quando la sentenza che riguarda il suo operato non sia diventata definitiva. Nel caso di cui in queste righe, sul banco degli imputati c’è però una Ministra della Repubblica e ciò modifica l’approccio al problema specifico. È una rappresentante istituzionale, seppure indiretta, della volontà degli italiani.Tempo addietro, un pò dovunque tra i paesi classificati progrediti, in casi del genere le dimissioni sarebbero state rimesse dalla persona sotto i riflettori nelle mani di chi ne aveva disposto la nomina e questi avrebbe deciso se accettarle o meno. Il motivo è da cercare nella concezione che il popolo aveva e chi da esso deputato anche, che a quel posto sarebbe dovuto essere un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Il commento di tanto, fatto da una persona avanti negli anni e quindi testimone del tempo, concluderebbe quasi certamente con un enfatico “oh tempora, oh mores! “. Al contrario, chi si dovevesse trovare oggi toccato anche da veri e propri atti di accusa, ragionerebbe ex adverso e si farebbe legare sul suo scranno, commentando che tale comportamento derivi dall’ intima convinzione di aver operato per il bene della comunità. Con animo turbato, più di un italiano avrà commentato tale comportamento facendo di tutte le erbe un solo fascio. Tutto ciò è una delle chiavi di lettura del distacco di individui di ogni ceto sociale dall’attività politica in senso lato. La prima conseguenza di tale fenomeno è sotto gli occhi di tutti: la grossa bolla di giovani che non studiano, non lavorano e non concludono nulla di concreto. I vari studiosi dell’ argomento sono quasi tutti d’ accordo che, procedendo in tal modo, la società si troverà a dover supplire alla mancanza di qualche generazione di lavoratori di ogni genere che potranno dare il cambio a chi è nato prima di loro. Fermo restante il fatto che dai tempi di Dante non sarà cambiata affatto l’affermazione: “più che la fame potè il digiuno” e l’istinto di sopravvivenza della specie farà sì che si cominci daccapo. Non a caso nel villaggio è ancora in uso la massima “chi fa e poi disfa, non perde mai tempo.”