La nuova configurazione tattico-strategica delle forza USA nel quadrante siriano

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La notizia delle operazioni di Inherent Resolve, la complessa coalizione diretta dagli USA in Siria, sono state annunciate fin dal 1 dell’Aprile u.s. proprio dal capo delle forze unite curde del PYD Salih Muslim.

Salih è attualmente il co-presidente del Partito dell’Unione Democratica curdo, che gestisce da tempo il potere nella regione curda semi-autonoma di Rojava, nel nord della Siria.
Salih Muslim è anche il vice-coordinatore del Comitato Nazionale per il Cambiamento Democratico, una coalizione di 13 partiti di centro-sinistra e sinistra con alcuni elementi, sempre curdi, definiti come “indipendenti”.
Si tratta, comunque, di una struttura che ha sempre attivamente collaborato con il governo di Bashar el Assad, pur avendo, il “Comitato Nazionale” appunto, riconosciuto l’Esercito Libero Siriano già nel settembre del 2012.
L’Esercito Libero Siriano è stato fondato, anche con il supporto di alcuni Paesi, tra tutti gli oltre 60, che poi hanno aderito a Inherent Resolve, da otto ufficiali delle FF.AA. di Assad, i quali avevano il fine di rovesciare il regime alawita.
Intanto, in Iraq, proprio in questi giorni, quell’Iraq che è la porta e la base reale dell’Isis, la situazione si va complicando ed evolvendo radicalmente.
Le Forze di Sicurezza iraqene, governative ma con forti inserimenti recenti di militanti sciiti legati a Moqtada al Sadr, sono ormai collegate strettamente alle tribù sunnite locali e ad una quota di combattenti di nuova formazione.
Sono queste Forze che hanno lanciato per prime una grande operazione per riprendere Fallujah, azione militare che ha avuto inizio il 23 Maggio.
Le forze hanno rapidamente conquistato terreno a Nord, compreso il distretto di Garma, storica “base” sia dell’Isis che del Fronte Al Nusra, la fazione siriana di Al Qaeda.
Ma la situazione politica altamente instabile dell’Iraq potrebbe perfino vanificare parte delle operazioni contro l’Isis, visto che il califfato ha lanciato attacchi suicidi sia verso Balad (12 maggio) che, il 21, a Dujail, per non dimenticare nemmeno il vasto attacco dell’Isis alle reti gaziere di Taji il 15 maggio scorso.
La grande coalizione di Inherent Resolve, dei curdi e degli sciiti, certo favorita dagli accordi tra gli USA e la Federazione Russa, che controlla ancora bene l’area vicina alla costa mediterranea della Siria, ha poi riconquistato Rutba (il 19) e gran parte dell’autostrada da Ramadi al confine giordano, il giorno successivo.
L’accerchiamento di Fallujah è quindi completato con forze certo superiori a quelle del califfato; mentre l’Isis è stato eliminato dal distretto di Diyala, il passaggio necessario proprio verso Fallujah.
Il califfato quindi ha perso gran parte delle sue aree operanti in Iraq, ma ha organizzato altri attacchi terroristici da un suo nuovo “governatorato”, il Wilayat Sahel, costituitosi sulla costa nord-ovest della Siria, con la capacità quindi di lanciare attacchi di shaheed (“martiri” ) (avvenuti il 23) verso Tartus e Jableh.
L’Isis ha poi riconquistato il giacimento gaziero di Sha’er portandosi successivamente all’attacco delle aree di Maher e di Jazal, altri campi di estrazione del gas naturale.
Mentre quindi le forze dell’Esercito Democratico Siriano si dirigono verso Raqqa, la capitale del califfato, per isolarla dal resto del territorio jihadista, i peshmerga curdi del PYD e le Forze di Mobilitazione Popolare, recentemente costituitesi con il sostegno delle tribù locali sunnite, hanno riconquistato Bashir (30 Aprile).
Le organizzazioni presenti nelle Forze di Sicurezza iraqene hanno invece riconquistato da sole Rutba e Garma, come abbiamo già visto.
Due accerchiamenti concentrici, quindi: quello diretto a Raqqa, l’altro, più esterno ma essenziale per la conquista della capitale dell’Isis, a Fallujah, e poi la rete delle aree più distanti, ma egualmente utili strategicamente, come Ramla, Garma e Rutba.
Gli USA e le tribù sunnite sirio-iraqene vogliono soprattutto: a) stabilizzare tutta l’area iraqena di Al Anbar, 2) circondare Mosul per mezzo delle Forze di Sicurezza iraqene, 3) creare una rete di tribù sunnite che circondi Raqqa prima della sua presa definitiva, 4) sostenere la logistica dei combattenti, soprattutto dei peshmerga curdi e dell’Esecrito Libero Siriano.
Finora, come sostengono gli ultimi dati forniti dalle fonti ufficiali di Inherent Resolve, vi sono stati ben cinque attacchi della coalizione sul territorio siriano, contro obiettivi dell’Isis.
In Iraq, che molto giustamente viene letto dal CENTCOM USA come un solo fronte con la Siria, sono stati effettuati 24 attacchi.
Ma i rapporti tra le tribù sunnite, il califfato e le azioni di Inherent Resolve sono più complessi di quanto sembri.
Nel 2014, per esempio, la tribù degli Albu Ajeel ha sostenuto l’Isis, che pure aveva invaso le sue terre.
Nello stesso periodo, però, la tribù degli al-Jughaifa presente in Anbar aveva bloccato duramente il califfato prima di arrivare alla città di Haditha.
La questione, insieme teologica e politica, come sempre nell’Islam, riguarda la separazione tra Siria e Iraq: nel territorio siriano, l’Isis considera molte tribù sunnite non regolari dal punto di vista religioso, e quindi le combatte come “infedeli”, mentre ciò accade di meno in territorio iraqeno.
Se non si ragiona per tribù non si comprende nemmeno il jihad: non a caso, perfino Bin Laden fu sostenuto, all’inizio della sua avventura terroristica, dai suoi “compagni” della tribù yemenita degli Asir.
Peraltro, gli yemeniti sunniti sono sempre stati ribelli alla “normalizzazione” wahabita degli Al-Saud, che li ritengono, come al solito, degli “infedeli”.
L’Isis ha “comprato” le tribù sunnite con il terrore e le minacce, con il suo particolare welfare coranico, con la protezione delle linee di comunicazione, proprio come fanno le organizzazioni criminali nel Meridione d’Italia o nei Paesi latinoamericani con le aree di produzione della droga.
Quando il welfare era solo governativo e unitario, e la guerra fredda assicurava sovraredditi per le periferie dei due Imperi, Hafez el Assad “comprava” le tribù sunnite con posti pubblici di rilievo per i loro capi, sussidi, regolamentazioni commerciali e fiscali favorevoli e selettive.
L’Isis ha sostituito il clientelismo di Stato con il suo jihad territoriale, quindi.
Basterà la sola Inherent Resolve a risolvere questa equazione che è militare, ma anche politica e sociale?
E non si deve dimenticare nemmeno che il califfato di Al Baghdadi punisce in modo efferato i traditori: nel 2014, quando la tribù degli Al-Shaitat insorse contro l’Isis, oltre 1000 tra i militanti tribali furono uccisi durante una “marcia della morte” diretta a Deir Ez-Zor.
Gli sciiti al potere in Iraq (ma i curdi sono in larghissima maggioranza sunniti, pur essendo di etnia iranica, quindi indoeuropei) hanno fin troppo maltrattato le aree tribali sunnite, le hanno depauperate ed escluse dal potere.
La guerra, in questo caso, la si vincerà dopo la cessazione delle ostilità, e bisognerà vegliare affinchè gli accordi che sosterranno economicamente le zone tribali non-sciite siano stabilmente implementati.
Ritorna poi il progetto di una Siria tripartita secondo le linee di frattura etno-religiose: un Alawistan, protettorato di fatto della Federazione Russa, l’area sunnita e, vera e propria, obiettivo primario dell’attuale regime turco, infine un grande Kurdistan sirio-iraqeno, che non potrebbe non accelerare le tensioni separatiste delle aree curde già presenti in Anatolia.
Per non parlare poi degli Alevi turchi, una setta che parla curdo nelle cerimonie religiose, fa parte dal 1970 (con una fatwa dell’Imam Khomeini) dello sciismo duodecimano, al potere in Iran dopo il 1979; ed è legata alla confraternita sufi dei Bekhtashi, presente in larga maggioranza presso i vecchi giannizzeri dell’Impero Ottomano.
Dopo lo scioglimento del corpo dei giannizzeri, nel 1826, i Bekhtashi si ricostituirono a Tirana, in Albania.
E’ stata, la rete dei sufi nel mondo ottomano, la base della specifica “modernizzazione” di Kemal Ataturk, massone occidentale, sufi e primo protettore degli Alevi e degli sciiti.
Oggi, comunque, Inherent Resolve, le forze curde, le reti tribali sunnite stanno tutte convergendo verso le reti di comunicazione che portano a Raqqa.
Basterà per eliminare il califfato di Al Baghdadi? Si e no.
Certamente lo ridurrà a niente o poco più sul piano territoriale, ma nulla vieta che esso possa ricostituirsi come cellula puramente terroristica, non territoriale, in qualche parte non completamente de-jihadizzata dell’Iraq o, meno probabilmente, della Siria.
Dall’Isis si ritornerà così al vecchio modello di Al Qaeda.
E le possibilità che il califfato si riconverta in una rete informale di jihadisti operanti in Europa, nei Balcani o in Asia Centrale non possono certo essere ritenute trascurabili.
E la Turchia? Come vede questa nuova strategia USA in Inherent Resolve che unifica curdi, tribù sunnite, Esercito Libero Siriano, altre forze tutt’altro che nemiche di Bashar el Assad?
Male, ovviamente, ma il problema è più complesso.
Sia gli aerei USA che quelli siriani (e russi) sono ormai da tempo in allerta con l’ordine di abbattere ogni velivolo turco e/o saudita che sorvoli i cieli siriani.
Le scelte, recentissime, di aumentare ancora la produzione giornaliera di petrolio, in Arabia Saudita, fanno pensare che il Regno voglia “fare cassa” rapidamente per sostenere spese militari ritenute impellenti.
Non è nemmeno improbabile che Ankara, con il sostegno implicito o esplicito sempre dell’Arabia Saudita, decida di invadere direttamente da terra, con la sua grande Seconda Armata, il territorio siriano, per difendere i suoi interessi nazionali, certamente anche petroliferi, ma soprattutto per evitare manu militari che i curdi riescano a unificarsi, anche quelli operanti nella sola Siria.
Si tratterebbe di costituire, per i gruppi jihadisti che fino ad ora la Turchia ha sostenuto, una sorta di zona di sicurezza lungo il confine meridionale di Ankara con la Siria.
Le regole NATO rendono, ovviamente, difficilissimo questo progetto, ma nulla vieta che Ankara organizzi una provocazione, un feroce attentato tipico delle false flag operations, per creare il casus belli indiscutibile.
La Seconda Armata turca è già da tempo posizionata al confine meridionale con la Siria, con il suo comando a Malatya, ha 100.000 elementi ottimamente addestrati; e creerebbe la safe zone per il jihad siriano separando nettamente il Kurdistan sirio-iraqeno a nord di Idlib da quello operante a Jarablus.
Una invasione limitata da parte di Ankara che potrebbe scontrarsi con la rete USA che si sta distendendo verso Raqqa e Fallujah, ma nulla ancora vieta che la Turchia crei un ulteriore cuscinetto con alcune tribù sunnite, che potrebbero evitare il contatto operativo tra Inherent Resolve e la Seconda Armata di Ankara.
Sicuramente, in ogni caso, il governo di Erdogan non starà semplicemente a osservare gli avvenimenti.