Senza l’amico Bernard Esambert non ci sarebbe, certamente, stato l’attuale concetto di “guerra economica”.
Uomo del Politecnico, quindi figlio della migliore tradizione colbertiana, sansimoniana e positivista, poi naturaliter gollista, che pervade la formazione dell’ élite francesi moderne e post-rivoluzionarie, con i governi che passano e le classi dirigenti che rimangono, come deve sempre essere.
Non a caso, in un suo vecchio libro del 1971, Le Trosiiéme Conflict Mondial, del 1971, Esambert cita all’inizio di quel testo un vecchio canto sansimoniano, scritto da Roget de Lisle, che esalta la scienza e la tecnica, nuove conduttrici dei popoli dopo l’âge de l’obscurité. Ufficiale del Genio militare, fu il poeta che scrisse il testo della “Marsigliese”.
Due cose che, simbolicamente, non sono certo un caso.
Poi, diviene rapidamente, sempre il nostro amico Esambert, da ingegnere minerario (e abbiamo una grande area storica di reclutamento, dagli ingegneri, per gli uomini del Servizio e dell’alta dirigenza francese) un grande commis d’Ėtat, anche oggi. Una vie d’influence, come recita il titolo di un suo recente volume.
Infine, Bernard diviene un punto di riferimento per Georges Pompidou, che poi lo richiama a collaborare, uomo di influenza, alla Presidenza della Repubblica.
Come diceva, peraltro, il troppo dimenticato, oggi, Benedetto Croce, si piò fare sempre e solo “il liberalismo possibile”, sapendo bene che l’economia reale è composta da un accordo, ed è quello che davvero sempre conta, tra impresa privata e direzione statale.
E’ sempre stato così, e sempre sarà, e questo è il primo criterio per stabilire la realtà di una guerra economica che, come notò per la prima volta proprio Bernard Esambert, vale sempre e dovunque, non viene mai dimenticata, a meno di gravi sconfitte, anche dagli Stati moderni che vogliono vincere una sfida che dura sempre, e che non ha mai una sola faccia: bellica, finanziaria, tecnologica, politica, culturale, organizzativa.
La guerra economica funzionava anche nella Grecia antica: la sovrappopolazione di Atene, la necessità di sbocchi commerciali nell’area centro-asiatica, l’espansione di greci in Italia Meridionale, dove i Bruzii, presi i loro idoli, si nascosero nelle montagne, senza più vedere il mare.
No: le facce della guerra economica sono sempre proprio tutte, e tutte funzionano sempre, e chi ne dimentica qualcuna è sempre destinato a perdere.
Certo, ci sono oggi i giovani e bravi analisti francesi, tra il Servizio e il mercato della formazione, che appartengono oggi all’ĖGE, l’Ėcole de Guerre Ėconomique fondata, su una vecchia idea, proprio di Esambert, da Christian Harbulot, poi ci sono anche le nuove iniziative italiane, tutte volte, nel mondo dell’Università, più a farsi vedere a strusciare i Capi delle Agenzie, per chissà quali piccoli favori, i soliti e consueti e spesso anche immaginari “poterini” dell’Accademia italiana, sempre un po’ pitocchi, dopo la lunga stagione del roadshow organizzato dal DIS, ai tempi di Marco Minniti quale “Autorità Delegata ai Servizi”, dal 2013 alla fine del Governo Renzi.
E non dimentichiamo, in questo caso, nemmeno l’Amb. Giampiero Massolo, che fu il primo sostenitore del roadshow dei Servizi italiani nell’Accademia italiana, ormai disastratissima, più per riciclare l’immagine delle Agenzie che per ricercare davvero nuove leve per i Servizi, che hanno sempre selezionato benissimo i loro uomini dentro e fuori le Università, senza bisogno di chiacchiere o di show.
E poi, lo sappiamo, i giovani che vennero reclutati dal sito sicurezzanazionale.gov.it sono stati rapidamente messi fuori dalle Agenzie, e ora vegetano in altri settori della Pubblica Amministrazione.
Non si tratta di “giovani” e “vecchi”, o di creare qualche occasione alla moda per università cadenti, ma di fare in modo che tutta, dico tutta la classe dirigente italiana operi per una ben pensata e, soprattutto, stabile guerra economica.
Per ora, a mia notizia, esiste in Italia un solo e specifico Master in Intelligence Economica, organizzato dallo IASSP, Istituto di Alti Studi Strategici e Politici di Milano. Al quale, mi si dice, ha partecipato anche Harbulot.
Ma, anche qui, niente a che fare con la tradizione di sintesi intelligence-classe dirigente economica e non ormai poli-decennale di Francia, in Inghilterra, perfino negli Stati Uniti, per non parlare nemmeno dei piccoli Paesi usciti, con intelligenza e tanta fatica, dal Patto di Varsavia.
E’ proprio Esambert a narrare, già presente in una vecchia ma già solita e scontata Conferenza di Davos, ormai nota e stucchevole riunione alla moda di chi crede di essere ma non è nulla, l’uscita del vecchio generale Jaruzelsky, uomo forte del contro-golpe polacco per evitare l’occupazione da parte di un languente Patto di Varsavia, quando il vecchio generale polacco, il cui braccio destro era una spia della NATO, dice apertamente che vuole investimenti occidentali in Polonia, è anche disposto a liberalizzare progressivamente lo zloty, poi a accettare le regole del business occidentale, e a accettare infine i capitali occidentali che arrivino in Polonia.
Previo controllo, ovviamente, da parte del vecchio-ma-nuovo-regime.
Ecco la vera réussite da ottima guerra economica, altro che le tante storielle che, di solito, i ricchi globalizzati rifilano ai loro figli inutili e sempre un po’ gauchistes, dato che va di moda.
Tra parentesi, è bene ricordare che perfino Adam Smith, inventore della “economia politica” secondo le regole di base degli interessi britannici globali del suo tempo, è un teorico del libero scambio fin dove Londra deve insediarsi, ma sostiene il più ferreo protezionismo, proprio quando si tratta di chiudere i mercati britannici, nazionali o coloniali, dall’attacco dei beni a basso costo dei concorrenti europei e, poi, delle 13 colonie che si renderanno indipendenti, sulla East Coast del Nord America..
Qui il problema è, ancora una volta, quello della scarsità, che proprio oggi, lo dice sempre Esambert, sembra ormai lontano, almeno da quelle che Mao Zedong chiamava “le metropoli del mondo”.
Ma c’è, eccome, invece, la scarsità naturale e quella indotta: noi, oggi, viviamo di scarsità indotte, che non necessitano delle guerre “per le materie prime”, come teorizzavano i geopolitici tedeschi degli anni ’30 del XX secolo, ma le scarsità indotte dei consumi moderni, che necessitano di tecnologie, di management esperto, di Stati capaci di espandersi strategicamente, di fabbriche moderne. Eccola, la nuova e inevitabile guerra economica.
O si vince o si perde, ma sempre in continuo, non c’è, nella guerra economica contemporanea, una “dichiarazione di pace”. Tutt’altro.
E’ qui il punto vero: se non si possono più costruire monopoli gestendo la scarsità, come sempre, secondo Smith, è accaduto nell’epoca della costituzione del capitalismo moderno, allora come si favoriscono oggi le aziende nazionali e i prodotti tipici della propria area, se non ci sono più guerre commerciali vere e proprie, come la penetrazione della Società delle Indie britannica in Estremo Oriente e in Cina, o le chiusure commerciali petrolifere di Londra in Medio Oriente, per prendersi il petrolio curdo ad Haifa quando Churchill, da Primo Lord dell’Ammiragliato, trasforma la navigazione militare di Londra da carbonifera a petrolifera, o ancora le operazioni, peraltro della sola famiglia reale belga, nel Congo o, ancora, i possedimenti francesi in Algeria, Marocco, Tunisia?
Cosa fu, se non una tecnica di guerra economica e politica, la scelta di Habib Bourghiba, ospite di Mussolini a Roma, di trattare in segreto con France Libre di De Gaulle, quando si accorse che Rommel, e il suo Afrika Korps, erano in rotta? Vendette la sua rete coperta del Destour, prima operativa con l’Asse, in cambio dell’indipendenza, dopo che avessero vinto le democrazie liberali dell’Ovest, che a Habib piacevano, peraltro, pochissimo.
L’Italia, priva di una vera e propria esperienza coloniale efficace e moderna, non sa ancora come si tratta l’esportazione del proprio potenziale produttivo, che è quello che realmente conta.
Abbiamo, da Giolitti fino a Mussolini, trattato le nostre colonie come semplici vie di uscita per la sovrappopolazione agricola, soprattutto quando erano bloccate le vie di uscita negli Stati Uniti o nell’America Meridionale.
L’unico errore che non si doveva fare è stato fatto.
Ci siamo persi perfino il petrolio libico, per poi riprendercelo con il golpe di Gheddafi, una creatura dei nostri Servizi.
Oggi, c’è l’idea, da parte degli italiani attualmente al potere, di andare all’estero, a trasferire il nostro potenziale di guerra economica, o come venditori “porta a porta” del fin troppo famoso Made in Italy, che pure si vende quasi da solo, oppure alla ricerca di aree esterne e lontane, nelle quali far sopravvivere il più a lungo possibile le nostre Piccole e Medie Imprese in agonia, per sfruttare, fino all’ultimo, il differenziale sul costo del lavoro.
O la moda, il marchio, ormai estero-rivestito, oppure l’accattonaggio per far prolungare l’agonia di qualche PMI che interessa per motivi politici, elettorali, finanziari.
Due cose profondamente errate, proprio nella sostanza. Ripetendo Esambert, ogni Paese va a vendere all’Estero non certo per ripetere la trama di quel vecchio e bellissimo film del 1959 di Francesco Rosi, I magliari, ambientato, non a caso, in Germania. Ma per vincere, e eliminare i concorrenti.
Quanto potrebbe insegnare, ai politicanti belanti per un “aiutino” tedesco, oggi, come se si fosse in una class di asen liceale al compito di matematica, il comportamento di Renato Salvatori e Alberto Sordi, che poi vengono maltrattati nello scontro con i polacchi, i precedenti “magliari”.
Non si va mai all’estero per proporre una fabbrica o un affare, ma si va sempre, lo si voglia o meno, per proporre un modo di impresa, una success story, uno stile di vita, un prodotto che deve essere quindi ipso facto protetto, sostenuto, pubblicizzato, di cui vanno bloccate le imitazioni, in loco e altrove; e per il quale occorre creare una stabile dipendenza del Paese-oggetto e una potente immagine nel mercato estero di riferimento.
Altro che lo stile sgangherato, lento, inefficiente, impolitico, tutto teso al semplice “affare”, che spesso la nostra politica estera mostra, anche in Paesi in cui si dovrebbe andare con ben altri piedi, di piombo o meno.
I Paesi esteri vanno conquistati, con il commercio, esattamente come si potrebbero conquistare, se ciò fosse oggi possibile, con una guerra guerreggiata.
E, infatti, ogni trattato commerciale è un trattato di Pace, che però deve manifestare con evidenza la volontà di chi ha vinto, ovvero, nel nostro caso, il sistema produttivo di chi è arrivato da fuori.
Certo, oggi anche le guerre economiche non si fanno più, almeno in linea di massima, per sostenere un mercato che assorba il nostro sovrappiù.
Il vecchio criterio marxiano, il sovrappiù, oggi non certo inutile come strumento di analisi della evoluzione del capitalismo moderno.
No, le guerre economiche si fanno, sempre come dice Esambert, per creare spazi di contro-azione e di lotta, fuori e dentro il vecchio perimetro nazionale, alle azioni avverse di tutti, amici e nemici, nel nostro sistema produttivo.
Chi perde si prende, senza limiti di tempo, i disastri della globalizzazione (immigrazione incontrollata, inquinamento, il binomio classico disoccupazione/inflazione) chi vince scarica i problemi sui suoi concorrenti globali.
E non c’è limite, lo ripeto, di tempo.
Quando la Spagna era ancora franchista, lo Stato di Madrid creò uno strumento di guerra economica proprio con la SEAT, nel 1950, con un piccolo apporto di capitale FIAT.
Poi, e siamo già nel 1985, la SEAT diviene parte del gruppo tedesco, creato peraltro da un vecchio progetto del Führer, ovvero la Wolkswagen Aktiengesellschaft.
La fabbrica catalana, colossale, fu inaugurata a Martorell da Re Juan Carlos, nel 1993.
La FIAT se ne andava e la VW entrava di peso, senza concorrenti locali o europei.
Non era forse una operazione di guerra economica? Certo che lo fu.
Ma, in quegli anni, l’Italia era intontita dalla sceneggiata di Mani Pulite, e nessuno fece caso al fatto che i tedeschi si prendevano le industrie di base spagnole, dopo la fine del Caudillo.
E questo procedimento è avvenuto anche altrove.
Dalla reclusione, con suicidio, del vecchio presidente dell’ENI Cagliari, fino alle questioni, mai ben risolte, dell’assassinio di Gardini, nel nesso tra la scalata alla Montedison e la creazione dell’ircocervo Enimont, tutta Mani Pulite è stata comunque una operazione, accelerata, di svendita del sistema industriale primario italiano, nelle more della caduta del Muro di Berlino e della crisi, questa sì davvero endogena, del sistema politico italiano.
Svendita degli asset primari, e io ne so ben qualcosa, dalla Società Autostrade alla SME, poi ci fu il ridisegno del sistema delle tangenti dalle imprese al sistema politico, che inizia infatti con la destrutturazione dell’ENI con Cagliari in carcere, fino alla creazione di una nuova rete di rifinanziamento di un “nuovo” sistema politico, dove tutti i partiti si ri-denominavano, secondo un sistema potenzialmente bipartitico, tra “progressisti” e magari “conservatori” o, perfino, “liberali”.
Non fu una operazione di guerra economica? Certo che lo fu. Tante imprese, grandi e piccole, diventarono appetibili da parte di grandi investitori stranieri, che furono favoriti, mentre l’impresa italiana, sia di Stato che privata, languiva, colpita dagli strali dei moralisti di nuovo conio.
E cosa accadeva, allora, nella Francia di Mitterrand, o nell’Inghilterra di Margaret Thatcher, che pure fu mandata fuori da Downing Street da una camarilla degli stessi Tories, in cui risaltava un grosso affare di elicotteri?
E Liu Tenan, capo cinese della “Commissione per lo Sviluppo”, espulso dal PCC, oppure lo stesso Rouhani in Iran, che vede la stessa Rivoluzione del 1979 in pericolo, a causa della corruzione, oppure ancora Ana Mato, ministra della sanità, dimessasi per lo scandalo che ha infangato, in Spagna nel 2014, tutto il Partido Pupular, per non parlare infine del 2,3% almeno del Pil mondiale che finanzia la corruzione globale.
Si crede forse che tutto questo sia solo, per così dire, “merito” dell’Italia?
Ecco qui in attività il solito provincialismo moralista, eredità ben caduca dello snobismo del vecchio Partito d’Azione, il cui socialismo liberale, sbertucciato da Croce, portava l’Italia ad essere una pallida imitazione della Gran Bretagna, mito eterno di tutti i poveracci in grisaglia.
Ecco quindi la formula finale: l’insieme delle protezioni legali e non-legali, pubblicitarie, politiche, militari, strategiche, monetarie, di sostegno alle classi politiche locali, di rapporto equo e razionale con il Paese-bersaglio, si chiamano appunto “guerra economica”.
Non c’è un altro modo di fare relazioni internazionali, anche non-economiche, c’è solo e sempre la Guerre économique,
Ecco, quindi: inizia, dopo questa fase esplicita e diretta dell’inevitabile scontro economico e per la sopravvivenza tra le Nazioni, ovvero l’”utilizzare le imprese come eserciti, le scuole di management come scuole per ufficiali”, poi ci sono i capitani di impresa, visti come nuovi generali, e infatti Akira Kurosawa, il Maestro dei Sette Samurai, volle proprio in un successivo film, Kagemusha, l’Ombra del Guerriero, del 1980, dei capitani di impresa giapponesi come nuovi Samurai, lui che discendeva proprio da una famiglia di maestri guerrieri.
Ogni azione economica è un atto di guerra “coperta”, ogni atto di guerra può inoltre essere trasformato in una azione economica, che invece di essere una spesa, alla lunga insostenibile, è invece un vero affare, o può anche diventarlo.
La guerra economica sposta il costo delle operazioni sulla vittima.
Attrattività e competitività sono ormai oggi complementari, mentre l’Italia è il 7° esportatore mondiale di merci ma è appena il 18° per gli Investimenti Esteri Diretti sul territorio.
E quelli che ci sono, oggi, sono uno strumento di egemonia esterna, non un sistema di potere nazionale, di proiezione del nostro potere economico o meno, verso i Paesi che ricevono le nostre merci.
O che comunque le dovrebbero consumare, invece dei prodotti dei nostri concorrenti.
La guerra economica deriva, anche, dal fatto che tutti i grandi Paesi occidentali fanno, più o meno, tutti le stesse cose.
Ma il 43% delle imprese quotate in Borsa oggi, in Italia, è posseduto da imprese estere. Ovvio che non c’è una diretta correlazione tra la qualità del management delle varie industrie e la loro titolarità proprietaria ma, secondo voi un dirigente di banca francese, come accade oggi in Italia, se deve organizzare una strategia per la propria impresa, starà a sentire il grande “parco buoi” dei suoi piccoli investitori, o magari le idee che gli vengono da qualche think tank di Stato, a Parigi, o magari da un suo ministro, o ancora da un suo collega a Lione o a Grenoble?
Le partecipazioni di imprese quotate da parte di investitori stranieri, oggi in Italia, ma sono inevitabilmente i dati del 2018, è di 196,4 miliardi, appunto il 43% del totale.
Intanto, le partecipazioni di spa quotate in mano a imprese italiane vale il 25,8%, con lo Stato che detiene in portafoglio il 2,7% del totale, e quindi non è certo difficile immaginare che, in questo quadro di equilibri internazionali economici, sarebbe proprio l’Italia ad aver necessità estrema di una politica di guerra economica.
Che vale anche per le operazioni culturali o umanitarie.
Dio solo sa cosa è stata l’organizzazione di Mèdecins sans Frontières per la Francia, o la gestione del sovrapprodotto granario, americano o canadese, per la politica di potenza di Washington, nei Paesi Terzi o in quelli in crisi umanitaria.
Chi mangia il tuo grano diviene tuo amico, chi viene salvato dai tuoi medici non ti farà mai guerra ma, soprattutto, comprerà volentieri i tuoi prodotti, quando la crisi sarà finita e la Francia o gli Usa presenteranno il conto delle loro operazioni umanitarie ai governi locali.
Peraltro, noi siamo passati da ben 6500 aziende multinazionali italiane, nel 2011, mentre oggi le multinazionali italiane sono decisamente di meno, e spesso più piccole.
Non parliamo nemmeno della nostra penetrazione culturale e egemonica: niente di niente, a parte qualche vecchia e sgangherata operazione mondana.
Altro che belle ragazze (che vanno benissimo, ovviamente) o cuochi di grido, o mostre d’arte, qui ci vogliono le palle ben sode per penetrare e egemonizzare stabilmente un mercato lontano, penetrazione alla quale debbono partecipare simultaneamente le aziende, i Servizi, sempre meno legati alle camarille di governi che durano l’espace d’un matin, e anche meno provinciali nel loro agire, poi le organizzazioni umanitarie, alcune università meno familiste del solito, poi certo anche la moda, i giornali, la TV, il cinema, tutto l’ordinamento, inevitabile, della seduzione.
Che però deve essere stabile e ben pensata, altrimenti si rischia di fare come in quell’anno, in cui un Presidente della Repubblica, italiano, mentre visitava la Grande Muraglia, ebbe la notizia ferale del capo del governo tedesco, che veniva a Pechino rapidissimamente, per firmare un accordo tra le grandi imprese automobilistiche di Germania e quelle nazionali cinesi.
Una cena, un saluto, e il rapido ritorno a Berlino.
Ecco, se non si prenderà in mano il criterio completo della “Guerra Economica”, come deve essere fatto secondo le linee di Bernard Esambert, l’Italia sarà sempre ai margini del grande sviluppo economico globale, e si prenderà, come peraltro sta già accadendo oggi, non i frutti ma i danni della globalizzazione.