La malattia diventa un post su Facebook. Un malore è ancora una questione privata?

Uno scatto che ritrae uno degli amici che è nella nostra lista di seguaci nei nostri social in un letto d’ospedale o poco prima di entrare in sala operatoria. L’impatto visivo ed umano è forte, scorrendo i commenti possiamo leggere preghiere, incoraggiamenti, preoccupazione, che alimenta altra preoccupazione. Nell’era 3.0 e dei social network che ormai a gamba tesa sono entrati nella nostra vita, governandola e gestendola, la malattia è sempre più social. Scorrendo le bacheche di Facebook e Instagram, ci si imbatte in foto di amici-non solo del mondo dello spettacolo- con capelli rasati dopo la chemioterapia, di amici in trattamento chemioterapico, di amici che postano preghiere e foto religiose accompagnandole con frasi che lasciano intendere un momento di vita difficile, nell’attesa che qualcuno chieda, quasi come se l’invadenza sia ben accetta, lasciando da parte la discrezione e il pudore che solitamente accompagnano questi momenti. Ammettiamolo fa sempre effetto l’esibizione della fragilità. Avvicina, turba, spaventa. Risvegliando anche tanti interrogativi. E’ giusto condividere il dolore? Spettacolarizzare la malattia? Perché lo si fa? Sono domande che mi sono posta guardando le foto ed i post di amici che stanno combattendo la loro battaglia più importante nella vita. Non hanno bisogno di pudore, intimità, privacy del dolore? Ma in un momento della vita si cade e così si ha bisogno di ascolto e di empatia. Di qualcuno che si prenda una parte del carico che gli si è piombato addosso e tiri fuori dalla buca in cui si è franati un giorno qualunque, scoprendo una cosa che non sapevi di avere-il valore sballato di un esame di routine, il cuore meno forte di quello che pensavi, un nodulo sotto al seno. Ci sentiamo tutti forti e immortali, certi di superare ogni cosa, di schivare le buche ed i pericoli. Poi in un momento si cade. Nulla è più come prima. Non bastano la volontà, la fede, l’impegno, l’appoggio di chi ami, il sorriso e la spontaneità con la quale sei abituato a vivere. Vorresti solo riprendere la tua vita dall’esatto momento in cui qualcosa si è spezzato nel corpo e nel cuore, nella balorda convinzione che a te certe cose non capitino, che tu sei diverso. E se il dolore colpisce sul personale, c’è chi sente un disperato bisogno di urlarlo e di condividerlo a suon di post sui social, che fanno scatenare commenti e like spinti dalla compassione che forse serve all’amico malato, ma non cambia la condizione. E’ diventato difficile anche soffrire, figuriamoci soffrire del dolore di qualcun altro, o esserne minimamente toccati. Le disgrazie ed i drammi altrui sono diventati quotidianità attraverso i mezzi di comunicazione, che siamo assuefatti all’istanza “quando può andare male, andrà peggio”, da digerire senza problemi le notizie più brutte. La condivisione del dolore, nostro e altrui, va a toccare corde che in questa epoca digitale sono particolarmente scoperti e sensibili: la dignità. La smania di voler essere protagonisti in tutto e di pubblicare i momenti più dolorosi, scegliendo di condividerli con tutti non è un cercare comprensione, ma volere approvazione. La volontà di essere ricordati in salute e felici e non malati e sofferenti, viene accantonata dalla smania di condividere. Una condivisione che si ferma allo schermo di un dispositivo digitale, che non è capace di arrivare dritto agli utenti e vive una vita breve, alimentata inizialmente da molti like, con qualche cuoricino e poi cade nell’oblio. Facciamo fatica, ormai, a tenere le cose per noi, e allo stesso tempo non sappiamo come condividerle con gli altri se non attraverso il mondo virtuale. Si avverte un disperato bisogno di esternare il dolore, e chi se lo tiene per sé tende ad essere discriminato: chi non condivide i suoi dolori sul web è ormai considerato un apolide digitale. Il dolore, sacralizzato da rituali religiosi vecchi migliaia di anni, è qualcosa di arcano e profondo, che scava dentro fino alla parte più sensibile e nascosta del nostro essere. I social network sono un tipo di narrazione che parte dal proprio io e si rivolge agli altri espandendosi a macchia d’olio lungo un orizzonte piatto e democratico. Secondo alcuni, proprio perché profondo e personale, il dolore, quando tocca certi livelli, non può trovare consolazione nella platea globalizzata della rete, ma in una spalla a cui appoggiarsi, che sia quella di un amico o del partner, qualcuno che ha di noi una conoscenza tanto profonda quanto la soglia raggiunta dalla tragedia. Per altri la condivisione del dolore significa dare ad esso un senso e Internet è indubbiamente il mezzo più rapido ed efficace per condividere qualsiasi cosa. Chi ha ragione? Forse non vale la pena chiederselo, ma la sensazione è che quel senso sottile e rassicurante di “privato”, di esclusivo, quella necessità di tenere dentro di sé il dolore e condividerlo solo con pochi intimi sta svanendo. La compassione, come l’indignazione, è un sentimento oramai volatile e le conseguenze di questo “smorfinamento emozionale” le vedremo nella loro interezza solo tra qualche decennio.