La Libia e l’essenza dell’accordo OPEC non OPEC

La Libia sta programmando di raddoppiare la sua produzione di greggio, nell’anno prossimo.

 Pur essendo un membro dell’OPEC dal 1962, nonché il Paese africano con le maggiori riserve petrolifere ( e di migliore qualità) è stato  posto fuori, per ovvie considerazioni geopolitiche, dal recente accordo OPEC-non OPEC, che favorisce la Federazione Russa, ricollega Mosca all’Arabia Saudita, evitando un legame troppo stretto tra Russia e Iran, pone la Russia in un ruolo di mediatore primario in tutto il Medio Oriente.

 Anche Teheran non ha alcuna intenzione di sabotare questo accordo sui prezzi petroliferi, che certamente favorirà anche la repubblica sciita.

 Ma la Nigeria e la stessa Libia, invece, hanno aumentato la loro produzione, mentre tutta l’area non-OPEC, Russia, Brasile, Canada, Norvegia, Kazakistan, ha aumentato le scorte dato che si suppone, soprattutto a partire dalla Cina, una diminuzione della domanda di petrolio e gas.

  Oggi la Libia, secondo le dichiarazioni del   presidente della National Oil Corporation   Mustafa Sanalla, estrae 708.000 barili/giorno, ma la produzione dovrebbe arrivare molto presto a 900.000 per poi stabilizzarsi, alla fine del 2017, sul milione e poco oltre  di bb/dd.

 Ricordiamo che, nelle more della dissennata guerra civile libica, la produzione era calata fino a 200.000 barili  giornalieri.

  E’ stata la stessa NOC, poi, a trattare con i vari gruppi armati postisi ai bordi delle pipelines dietro congrui pagamenti, e ricorrendo al sostegno efficace delle forze di Khalifa Haftar.

  La nuova presenza dei libici sul mercato petrolifero globale è stata resa infatti possibile da un accordo, nel settembre scorso, tra la NOC e il generale Khalifa Haftar, che detiene il potere su gran parte dei porti libici e, soprattutto, su Ras Lanuf ed Es Sider.

La Libia, dicevamo, è stata posta fuori dal trattato OPEC-non OPEC, insieme alla Nigeria e all’Iran, che pure appoggia, come ha dichiarato il ministro del petrolio Zangrneh, il processo di diminuzione controllata della produzione da parte del cartello di Vienna e di quella, maggiore ancora, del mondo non-OPEC.

 Per ora, l’accordo è operante   soprattutto tra Russia, Arabia Saudita, Qatar e Venezuela.

 Peraltro, è da pochi giorni che l’Iran ha ripreso ad esportare il suo petrolio verso l’Europa, per la prima volta dopo il 2012.

 Se la trattativa OPEC-non OPEC funzionerà, allora l’Iran avrà tutto l’interesse a farne integralmente parte.

  Se, allora, l’Arabia Saudita, sia pure controvoglia, toglie dal mercato il 4,5% della sua produzione giornaliera, ovvero 500.000 barili/giorno di meno, tutta l’area non-OPEC collaborerà a questa operazione rialzista per un totale di 600.000   barili giornalieri di meno, mentre la Federazione Russa si predispone ad un taglio giornaliero di 300.000 barili.

 Quindi, soprattutto per quanto riguarda la Libia, si prevede una rapida rinascita economica, spinta come al solito dagli idrocarburi, che certo non riporterà quel Paese ai fasti di Muammar El Gheddafi, con i suoi 1,6 milioni di bb/dd, ma certamente permetterà una qualche ricostruzione di quel povero e sfortunatissimo Paese.

 La Libia, in un certo senso, come “economia di sostituzione” petrolifera   del resto dell’OPEC, il che permetterà un miglioramento della sua economia ma potrebbe perfino depotenziare, fino quasi ad annullarlo, lo sforzo dei Paesi OPEC-non OPEC per far risalire il prezzo del barile.

 Ma non crediamo che la NOC vorrà spararsi sui piedi e, anzi, siamo certi che la Libia seguirà il rialzo dei mercati con attenti aggiustamenti giornalieri della sua produzione.

 Niente vieta, inoltre, che, nella seconda metà di questo anno, l’OPEC non si adatti ad un’altra ulteriore diminuzione della produzione petrolifera e, se si arrivasse, come è peraltro probabile, ad un prezzo al barile di 60 Usd, anche l’Iran avrebbe tutto l’interesse a  partecipare.

  L’Iraq, fino ad ora, ha fatto pressioni per evitare di dover entrare nell’accordo OPEC-non OPEC, dato che deve sostenere uno sforzo militare e sociale contro il terrorismo e il cosiddetto “califfato” di Al Baghdadi, ma alla fine ha accettato un tetto giornaliero di 4,35 milioni di bb/gg.

 La Russia premeva per l’accordo anche con l’Iraq   e, probabilmente, l’aumento oltre i 60 Usd al barile permetterà, malgrado le restrizioni all’ estrazione, un’alta liquidità.

 La compliance, la fedeltà all’accordo, è oggi di circa il 90%, dicono gli analisti indipendenti di questo particolare mercato;   il che consentirà alla Arabia Saudita, che ha accettato per sé i tagli maggiori, di stabilizzare l’area mediorientale, alla Russia di diventare il grande player e mediatore in tutto il Medio Oriente, e perfino agli USA di rendere molto profittevole la estrazione di shale oil.

Secondo le analisi di intelligence economica più affidabili, però, il break-even point del petrolio da scisti bituminosi USA è a ben meno di 30 Usd a barile, ed è questo il vero problema dei Sauditi.

 Che hanno fatto di tutto, perfino  abbattere i prezzi del barile come fino a poco tempo fa, per eliminare fin dall’inizio la concorrenza nordamericana, anche se il costo di produzione del petrolio shale negli Stati Uniti varia grandemente tra un’area e l’altra.

 Il sogno di Riyadh sarebbe quello di ridurre il numero delle imprese attive nello shale USA a meno di dieci, per poi tentare una unificazione verticale di quel mercato con alcuni grandi operatori internazionali.

 D’altra parte, il costo di produzione del petrolio saudita è molto basso, e può gestire una guerra commerciale con lo shale USA per tutto il tempo che vuole.

  E, per quanto riguarda il gas naturale, che ha un mercato strutturalmente diverso da quello petrolifero, si prevede a breve una guerra commerciale tra alcuni operatori statunitensi e i tradizionali fornitori russi di gas alla UE, mentre  Gazprom correrà ai ripari inondando di gas naturale a basso prezzo i paesi europei.

 Altra guerra commerciale all’orizzonte dei sistemi energetici, quindi, senza dimenticare che, se il petrolio a bassissimo prezzo avesse continuato a dominare i mercati per altri due anni, a metà del 2018 l’Arabia Saudita sarebbe andata in default, e i 30 Usd a barile allungano la vita a Riyadh di circa sei mesi.

 Gli altri “poveri” dell’OPEC sono nella stessa situazione della ricca Arabia Saudita.

 E Riyadh ha comunque favorito il petrolio troppo basso in funzione della distruzione dela produzione USA e, soprattutto russa.

 Ora, con il nuovo accordo, l’area OPEC diviene referente della geopolitica russa, e anche la Libia opererà sempre di più in correlazione con Mosca, dato che è stata proprio la pressione russa a far “chiudere” l’accordo di Algeri e, poi, quello definitivo di Doha.

 Ma i sauditi, che hanno riserve monetarie per 655 miliardi di Usd, non potranno accettare a lungo nemmeno un prezzo al barile oltre i 60 Usd, a meno di restrizioni nella spesa pubblica di Riyadh e di dare inizio al proprio indebitamento estero.

 Anche la Russia, peraltro, ha il problema dell’impoverimento dei   suoi campi estrattivi nella Siberia Occidentale, e quindi la restrizione produttiva, che per Mosca non è elevata, è una benedizione per i prezzi e per l’allungamento della vita dei pozzi, senza contare che le sanzioni per la questione dell’Ucraina hanno bloccato l’arrivo di tecnologia estrattiva moderna in Russia, con il correlato aumento dei costi di produzione.

  Se quindi Vladimir Putin riuscirà, con questo accordo con l’OPEC, a raggiungere il livello dei 100 Usd a barile entro un orizzonte temporale accettabile per gli investitori internazionali, allora il nuovo “grande gioco” dell’Asia Centrale e del Grande Medio Oriente potrà avere inizio.

 I sauditi hanno cominciato ad estrarre il loro petrolio in grandi e impreviste quantità alla metà degli anni ’80, in accordo politico e finanziario con gli USA, il che ha distrutto ulteriormente l’economia sovietica, ma ora il meccanismo funziona in modo esattamente opposto.

 Il costo di produzione del barile russo è oggi di 5,4 Usd. Quello dei sauditi è di soli 3 Usd, mentre la prossima apertura di estrazioni offshore non farà che aumentare, evidentemente, i costi di produzione.

 In Libia, il costo di produzione, al netto del disastro politico del Paese, è assimilabile a quello saudita, ma i dati ci dimostrano che, senza un aumento, come previsto, della produzione e dei prezzi lo Stato libico, o quello che ci assomiglia, non avrebbe più fondi, alla fine di quest’anno.

 Un problema che per alcuni aspetti, è anche quello russo.

 Il deficit federale della Federazione Russa è di 1,5 trilioni di rubli (23,2 miliardi di Usd) e il Fondo di Riserva di Mosca, secondo le dichiarazioni dei ministri competenti, potrebbe prosciugarsi proprio alla fine del 2017.

 Senza la ripresa dei prezzi petroliferi, tutta l’architettura strategica russa andrebbe, quindi, in malora, creando un disastro geopolitico ancora più grave di quello che portò, secondo la nota battuta di Putin, al collasso dell’URSS.

 Ma se, come abbiamo visto, l’accordo OPEC-non OPEC tiene, ed anzi si rafforza durante quest’anno, allora la stabilizzazione dell’economia russa (e la sua diversificazione) e, di conseguenza, dell’intero arco di crisi mediorientale,   sarà una realtà.

Giancarlo Elia Valori