Le recenti discussioni sulla Dottrina Monroe negli ambienti accademici europei e statunitensi e sui media si sono concentrate principalmente sull’amministrazione di George W. Bush e su quella Trump.
Sebbene entrambe le amministrazioni fossero governate dal Partito Repubblicano, la politica estera spesso entrava in contraddizione. La maggior parte delle discussioni nel mondo anglofono sulla Dottrina Monroe durante l’era di questi due presidenti sono legate all’America Latina. I concetti di politica estera di Bush e Trump erano molto diversi: il primo aveva il colore del “globalismo” e desiderava esportare il sistema politico e l’ideologia degli Stati Uniti d’America dappertutto con ogni mezzo. Tuttavia, nelle loro politiche nei confronti dell’America Latina, entrambi consideravano il Subcontinente come la loro esclusiva sfera di influenza: l’amministrazione Bush ha sostenuto l’opposizione venezuelana per lanciare un colpo di Stato per rovesciare il presidente Chavez e impostare la guerra al terrore in America Latina nei confronti dei Paesi che si oppongono all’egemonia statunitense. L’amministrazione Trump ancor di più sbandierando la Dottrina Monroe; incoraggiando l’opposizione in Venezuela e Bolivia; spingendo per un cambio di regime a Cuba; limitando il diritto del Messico al libero scambio e così via. Lo stesso vale per l’attuale amministrazione del Partito Democratico.
Torniamo indietro nel tempo: nel 1933, di fronte al crescente sentimento antistatunitense in America Latina, il presidente Franklin Delano Roosevelt annunciò una «politica di buon vicinato» per bilanciare l’influenza di Germania e Italia. Nonostante ciò, non significava rinunciare all’intervento in America Latina, ma di restringerlo a metodi non militari e attirare più alleati regionali nell’azione di infiltrazione pacifica.
In parallelo nel 2009, l’ascesa al potere dell’amministrazione Obama, cercò di’indebolire l’“unilateralismo” di Bush. Il segretario di Stato di Obama, John Kerry, dichiarò nel 2013 che l’era della Dottrina Monroe era finita, ma di fronte a una serie di regimi di sinistra in America Latina gli Stati Uniti d’America sostituironi appena gli ovvi mezzi sovversivi con quelli più subdoli: finanziamento di Ong; acquisto di opposizioni; manipolazione dei social network – tutto questo per condurre guerra dell’informazione, imettere mercenari; attuare eliminazioni mirate attraverso l’“anticorruzione” manipolata dalla predetta opposizione, ecc. E così via continuare pure le sanzioni economiche contro Cuba.
Anche l’attuale amministrazione Biden – nel corso della campagna elettorale – ha dichiarato di voler percorrere la strada dell’“unilateralismo” del presidente uscente, ma i vincoli politici interni hanno limitato le rare mosse politiche che veramente tentavano almeno di verniciare la facciata. Gli Stati Uniti d’America continuano a imporre sanzioni a Cuba, appoggiano ancora l’opposizione venezuelana e limitano ancora i diritti di libero scambio in Messico.
La suddetta dualità della Dottrina Monroe negli Stati Uniti d’America può essere collegata alla critica di Carl Schmitt al doppio standard tenuti dagli Stati Uniti d’America dopo la seconda guerra mondiale. A tal fine, Washington reclutò i nuovi complici della guerra fredda, ossia gli ex nemici Germania e Giappone per costruire il Secolo Americano in funzione anti-sovietica. E gli ex nemici funzionarono bene.
La nuova dottrina di gestione degli ex nemici non era altro che la trasposizione della Dottrina Monroe ampliata, e ruotava intorno al “diritto” di appropriazione delle materie prime mondiali, particolarmente dell’energia, mediante guerre di aggressione convenzionali, sostenuta dall’opinione pubblica statunitense, in sé restia tradizionalmente a intervenire in guerre per presunti diritti umani mascherati da volontà di egemonia.
Non per nulla alcuni studiosi affermano che la Germania e il Giappone, nella guerra fredda, possono essere classificati come la nuova Dottrina Monroe dell’universalismo americano: ossia un spostamento ad ovest della NATO, sino ai confini del Patto di Varsavia, ed ad est, costituendo un bastione anti sino-sovietico nell’Estremo Oriente. Da qui nacque la relazione tra lo sviluppo capitalista e l’allargamento della Dottrina Monroe nell’interventismo globale.
Schmitt ha sottolineato in Der Begriff des Politischen (Il concetto di politica, 1932) che la “politica” non è correlata ai campi di società, economia e cultura. È un “sé” in parallelo che, raggiungendo una certa intensità, determina la distinzione tra nemico e amico, prescindendo da comunanza di valori etici, religiosi od economici. Schmitt non cerca di riflettere fondamentalmente sulla logica del capitalismo stesso, ma piuttosto critica la sua manifestazione politica che si è sviluppata allo stadio d’imperialismo prescindendo dall’aspetto culturale ov’esso è nato.
Analizzando la politica asiatica della Dottrina Monroe del Giappone, prima della II Guerra Mondiale, si evince il processo di cambiamento della percezione nipponica sulla Dottrina Monroe tra le diverse élite politico-culturali in Cina. All’inizio della storia contemporanea – che si suole fissare dal 1900 – l’impero cinese diventò una semicolonia dominata dal Giappone e dalle potenze occidentali. Dalla tarda dinastia Qing alla Repubblica di Cina, dall’amm. Li Hongzhang, dal ministro degli Esteri e primo mininistro in pectore, Wu Tingfang, dal gen. Jiang Jieshi [Chiang Kai-shek] in poi, la consapevolezza di base di molte élite politiche era che l’integrità territoriale della Cina dipendesse dall’equilibrio del potere.
Dopo la I Guerra Sino-Giapponese (1894-1895), molti cinesi si aspettavano – ancor meglio dire: s’illudevano – che il Giappone svolgesse il ruolo di trattenere le potenze europee. Invece soprattutto dal 1897, l’aggressione delle potenze europee nell’Asia orientale si intensificò improvvisamente. la Russia occupò Lushunkuo [Port Arthur, 1898; ai giapponesi dal 1904 al 1945], la Germania Qingdao [Tsingtao, 1914], il Regno Unito Weihaiwei [1898-1930] e gli Stati Uniti d’America avevano già allargato la propria Dottrina Monroe creando dal nulla la Guerra Ispano-Americana (1898) e occupando le Filippine, quali finestra sulla Cina.
Dal 1904 al 1905, la Guerra Russo-Giapponese fu combattuta sul suolo cinese e un gran numero di élite intellettuali cinesi esultarono per la vittoria nipponica. È in questa situazione internazionale che la vulgata dell’“asiatismo” del Giappone – «L’Asia agli Asiatici» un’eco della Dottrina Monroe –fornì un’apparente identità collettiva temporanea fra i due giganti asiatici.
Questa situazione cambiò in quanto il motivo principale fu il graduale squilibrio nell’equilibrio dei poteri in Cina. Soprattutto durante la I Guerra Mondiale, le potenze europee distratte dagli eventi in corso, ridussero l’investimento di risorse, e quindi di interessi imprescindibili in Cina. Di conseguenza l’influenza del Giappone aumentò improvvisamente e nel gennaio 1915 impose le ben note Ventuno Richieste alla Cina. Queste erano un insieme di richieste fatte durante la I Guerra Mondiale e avrebbero esteso notevolmente il controllo giapponese della Cina. Il Giappone avrebbe mantenuto le ex aree che la Germania aveva conquistato all’inizio della guerra nel 1914. Il Giappone si sarebbe rafforzato in Manciuria e Mongolia meridionale; avrebbe avuto un ruolo più ampio nelle ferrovie. Le richieste più estreme avrebbero dato al Giappone una voce decisiva negli affari finanziari, di polizia e di governo. E l’ultima parte d’esse avrebbe reso la Cina un protettorato del Sol Levante, riducendo così l’influenza occidentale. Regno Unito e Giappone avevano un’alleanza militare dal 1902 e nel 1914 Londra aveva chiesto a Tokyo di entrare in guerra. Pechino pubblicò le richieste segrete e fece appello a Washington e Londra. Nell’accordo finale del 1916, il Giappone rinunciò alla richiesta di protettorato, ma la situazione della Cina resto gravissima.
Il Movimento del “4 maggio” del 1919 fu, in una certa misura, uno sforzo antimperialista congiunto di varie fazioni della Cina. Nacque dalle proteste studentesche a Pechino di quel giorno. Gli studenti si riunirono in Piazza Tiananmen per protestare contro la debole risposta del governo cinese alla decisione del Trattato di Versailles, che consentiva al Giappone di mantenere i territori nello Shandong che erano stati ceduti alla Germania dopo l’assedio della predetta Qingdao nel 1914. Le manifestazioni suscitarono proteste a livello nazionale e stimolarono un’impennata del nazionalismo cinese, un passaggio alla mobilitazione politica: un movimento che si allontanava dalle tradizionali élite intellettuali e politiche.
Pertanto, il cambiamento nell’atteggiamento delle élite cinesi è principalmente correlato alla crescita del potere giapponese in Cina. Prima il Giappone era debole e parlava di identità “asiatica” e si opponeva alla spartizione della Cina da parte delle potenze europee, ma dopo – rafforzatosi – il suo comportamento fece capire che non era fondamentalmente diverso dalle potenze europee. Esso era l’essenza della “dottrina Monroe asiatica” del Giappone.
Dopo il lancio della cooperazione PCC-Guomindang, la Dottrina Monroe – fu lo scrittore, giornalista e filosofo Liang Qichao (1873-1929) che fece conoscere la Dottrina Monroe ai cinesi, oltre alla visibilità del discorso portato dalla propaganda americana nell’opinione pubblica cinese durante la prima guerra mondiale – essa dottrina diventò nella maggior parte dei casi un termine negativo, che voleva dire impegnarsi in un cerchio chiuso e non concentrarsi sulla situazione generale. Nel PCC, la Dottrina Monroe era più che altro studiata e discussa per illustrare gli affari internazionali, ed essa non era trattata all’interno del PCC.
Del resto la guerriglia e la guerra mobile attraverso i confini, portata avanti dal PCC e dall’Esercito di Liberazione Nazionale, era di per sé un superamento della Dottrina Monroe, tipica invece dei Signori della Guerra nei propri territori d’inflenza.
Il 6 ottobre 1958, il presidente Mao redasse la Lettera ai compatrioti di Taiwan (poi firmata dal ministro della Difesa, Peng Dehuai), attaccando la presenza militare statunitense nel Pacifico occidentale [secondo la prospettiva geografica cinese, quindi l’Oceano Pacifico che bagnava la Repubblica Popolare della Cina]:
«Perché un Paese del Pacifico orientale è arrivato nel Pacifico occidentale? Il Pacifico occidentale è il Pacifico occidentale del popolo del Pacifico occidentale, proprio come il Pacifico orientale è il Pacifico orientale del popolo del Pacifico orientale, questo è solo buon senso e gli statunitensi dovrebbero capirlo. Non c’è guerra tra la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati Uniti d’America, quindi non c’è il cosiddetto cessate-il-fuoco. Parlare di un cessate-il-fuoco dove non c’è fuoco, non è una semplice sciocchezza?»
La dichiarazione sottolineava solo l’autonomia regionale della RP della Cina nel Pacifico occidentale e indicava che gli Stati Uniti d’America non avrebbero dovuto interferire negli affari di quel mare. Però non affermava che la RP della Cina svolgesse, o dovesse svolgere, un ruolo di primo piano sempre in quel mare.
Del resto fin dalla prima cooperazione tra PCC e Guomindang, il presidente Mao usò il termine Dottrina Monroe solamente a livello “sovranazionale”. Nel 1940, nel suo rapporto La situazione presente e la politica del Partito, commentò:
«Gli Stati Uniti d’America sono la Dottrina Monroe più il cosmopolitismo: “Il mio è mio, il tuo è mio”. Essi non sono disposti a rinunciare ai propri interessi nell’Atlantico e nel Pacifico».
Poiché gli Stati Uniti d’America tendevano troppo le mani, era facile offendere altre potenze, quindi la RP della Cina in quel momento poteva trarre vantaggio dalle contraddizioni tra i Paesi imperialisti, e la Teoria dei Tre Mondi si preparava a viaggiare in quella direzione: ovvero quale massima oppositrice della Dottrina Monroe.
Oggi i contrasti fra RP della Cina e Stati Uniti d’America in quella acque non sono una novità, ma vanno letti nella storia come scontri di visioni geopolitiche contrastanti, ove i primi si appellano al diritto internazionale, mentre i secondi cercano di farne strame all’indomani della caduta del paolino katechon, ossia l’Union Sovietica.