Negli ultimi giorni è tornata di attualità la discussione sul ruolo e l’importanza della carta stampata nel panorama dei mezzi d’informazione del Paese. Un ruolo messo a repentaglio dalla rivoluzione digitale, della crisi economica e anche da qualche distrazione degli editori che non hanno afferrato per tempo l’antifona.
Il tema è di quelli più spinosi che esistano. E non di rado chi tocca i fili della trama, per quanto lisa il tempo l’abbia resa, rischia di restarci stecchito tanti e tali sono gli interessi che da sempre si nascondono dietro i simulacri della libertà di stampa e del pluralismo che dovrebbe qualificarla.
Gli editori di carta stampata, dunque, si sentono minacciati come mai prima d’ora. I bilanci delle loro aziende non sono floridi come una volta (tutt’altro) e i giornali che producono stanno definitivamente perdendo la battaglia contro i nuovi mezzi grazie anche alla preferenza loro accordata dalla nuova classe governante.
La pubblicità è sempre più attratta dalle grandi piattaforme di aggregazione – Google, Facebook, Alibaba – e al loro confronto perfino il Corriere della Sera appare come un pigmeo. Al sistema tradizionale dell’informazione non restano che le briciole, da condividere con i fratelli-coltelli delle televisioni e delle radio.
I germi della crisi, tuttavia, vengono da lontano. E dal mantenimento di una struttura di costi e organizzativa non più compatibile con le risorse disponibili in un mondo che andava modificandosi profondamente richiedendo anche ai giornali di diventare aziende coi conti in ordine e non più solo supporti di propaganda.
Si è poi mirato a un bersaglio sbagliato. Piuttosto che puntare a ottenere, come in America, una consistente riserva all’interno del monte pubblicitario nazionale – che qui da noi è stata invece assicurata al sistema televisivo – i proprietari dei giornaloni se la sono presa con gli spiccioli del finanziamento pubblico riservato alle imprese piccole e indipendenti.
Dando vita, con questo, a una guerra che si sarebbe presto rivelata tra poveri perché ad affondare – prima lentamente poi sempre più velocemente – è stata ed è l’intera categoria: degli editori impuri, così chiamati perché titolari di grandi interessi economici, e di quelli puri ma sussidiati per avere il diritto di sopravvivere.
Ora è lungo raccontare il perché è stato necessario destinare fondi alla piccola editoria – oggi anche questi sotto minaccia di estinzione – ma è abbastanza evidente che se il mercato è popolato da grandi gruppi che possono dettare le regole e anche perdere all’infinito siamo in presenza di un fenomeno da correggere di concorrenza sleale.
Invece di giocare al pesce grande che mangia quello piccolo si sarebbe dovuto consentire a tutti di trovare un dignitoso posto nella vasca delle notizie perché la carta stampata è presidio di democrazia: luogo di approfondimento e formazione della coscienza nazionale. E, dunque, per questo stesso da trattare con molta cura.
Poi c’è stato l’avvento di internet e dei social network. E quello che la tv è stata per i giornali le grandi stazioni di smistamento sono diventate per giornali e tv: delle idrovore voraci e capaci di risucchiare i costosi contenuti delle redazioni tradizionali e la stragrande maggioranza delle risorse pubblicitarie.
Venirne a capo è possibile ma richiede molta lungimiranza.